Il racconto della vita in case di accoglienza di Guglielmo, tra Italia e Bolivia. Convivere diventa lo spazio vuoto dove lasciarsi visitare dall’altro, scoprendo la pienezza nella condivisione quotidiana.
In America Latina vivi il tempo senza avvertirlo scorrere sulla pelle. C’è, cammina piano sulle giornate, ma quasi non lo senti, come lo sciacquio di una nuvola passeggera lasciata lì a stendere dall’ultimo soffio d’inverno. Poi basta uno sguardo, un tabellone dei treni in stazione, una luce di fine anno ancora appesa sghemba tra i marciapiedi polverosi e ne ritrovi addosso chiara l’essenza, le fattezze, il peso leggero. Il tempo prende una forma, uscendo fuori dalla pozzanghera di vapore nella quale il vortice rapido e confuso delle giornate lo ha diluito.
Da una manciata di giorni è 2020, un nuovo anno, una pagina color crema da riempire d’istanti e mesi ancora sconosciuti. Trovandolo così, fragilmente di fronte, il tempo, ci leggo disegnate dentro le ore che sono passate, i momenti, le scelte, gl’incontri che le hanno accompagnate.
Penso allora che poco meno di due anni fa ho cambiato tetto per trovarne uno più grande, in compagnia di decine e decine di persone che non speravano più di poterne avere uno diverso dal cielo stellato. Un pomeriggio di un paio d’anni fa ho cercato riposo su un letto piccolo e duro in compagnia di altri quaranta e da allora quel letto mi è diventato casa. Da allora ogni giorno ha preso la forma di un rigurgito d’onde instabili.
Ogni mattina si è trasformata in un raduno d’artisti senza casa, gli occhi bassi sulle pieghe del primo caffè alla ricerca di risposte senza domande. Ogni sera è diventata un saluto collettivo al giorno che sfiorisce, carico di speranza per il prossimo che arriva.
Vivendo insieme, ho conosciuto decine di volti segnati dal peso dell’incertezza, del fallimento, della colpa. Ho dimenticato il significato dell’intimità, per trovare quello della condivisione. Ho scoperto che aiutare riempie molto più chi allunga la mano di chi la riceve e che uno sguardo negli occhi può insegnare più di una intera storia vissuta.
Una volta Erri De Luca disse che “felicità significa fare il vuoto per lasciarsi visitare dall’altro”. Vivendoci con l’altro, povero, triste, solo, ho scoperto a pieno il significato di questa felicità. La convivenza è diventata la stanza sgombra dove lasciar entrare le parole, le sensazioni, gli occhi di chi ne è parte.
Vivere in case di accoglienza significa lasciarsi andare ai flutti della storia insieme, perdere il senso del confine e assaporare quello della visita. È una felicità strana, rara, sofferente, che riempie e dà senso. Lasciarsi catturare da questo tipo di felicità è un esercizio quotidiano che chiede fatica e rende sorpresa, pienezza, curiosità appagata.
La mia è una semplice testimonianza rivolta in particolare a coloro che sono colpiti e colpite dal dubbio e dall’incertezza verso la vita tra le quattro mura: convivere con gli “ultimi” è una esperienza sconvolgente, radicale e pura, che aiuta a conoscere e conoscersi. Tutto sta nel primo passo, liberare parti di se per farsi trovare. Superati questi centimetri iniziali ogni sguardo, ogni giornata diventa allora una pagina da leggere d’un fiato.
Da poco è iniziato il 2020 e l’augurio che sento di fare a tutti e tutte è quello di lasciarsi abitare dal dubbio, dalla paura verso la propria vita, verso le proprie certezze, cercando risposte in quei luoghi impensati dove sembra esserci più sofferenza. In realtà, sotto il manto sottile della tristezza si nasconde una autenticità incarnata, capace di dare il giusto peso ad ogni cosa. Vivere questa autenticità ogni giorno è una benedizione della vita, una parola semplice che riassume tutto ciò che è importante sapere.
Che questa parola arrivi alle orecchie di chiunque ne sia alla ricerca.
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