“Mi piacerebbe che potessimo passare il ferro da stiro sulla testa per smettere di crescere” dice Jo March in Piccole Donne. Ho già provato a fare una breve trama di Piccole Donne nel caso ci fossero persone nel mondo che non lo conoscono (esistono, una di loro è A; la trama era per lui, credo non l’abbia seguita) ed è qui.
Ho riletto questa frase l’altro giorno, citata in un libro di saggi che stavo leggendo. Non me la ricordavo minimamente, evidentemente da piccola non mi aveva colpito. Forse non mi aveva molto colpito perché non mi sembrava particolarmente rilevante il concetto di non voler crescere. Non mi sembrava qualcosa a cui pensare, o meglio, non riuscivo ad articolare così questo pensiero. Non mi dicevo di non voler crescere, ma sentivo l’avvicinarsi di qualcosa. Sentivo tutto cambiare e io, invece, non volevo che lo facesse. Immaginavo di poter fare sempre tutto uguale.
Questo fenomeno è stato molto chiaro quando ho iniziato le medie. Ho già parlato della mia fatica di crescere e, soprattutto, di dover crescere e comportarmi da femmina; ma è qualcosa che abbraccia un po’ tutto quanto.
Sentivo di essere un pesce che cerca di risalire la corrente.
Mi ostinavo a considerarmi piccola, fino all’ultimo minuto. Cercavo intorno a me tutti i segnali che confermassero che ancora non ero cresciuta. I negozi di vestiti per bambini, che arrivavano fino ai quattordici anni e, in alcuni casi, ben fino ai sedici: ero al sicuro per un altro po’ di anni. I libri per bambini, che però si chiamavano “per ragazzi”, e che erano comunque in un posto a parte in libreria, non insieme a quelli per adulti. Mi ostinavo a giocare con le bambole, anche se la baby-sitter di mia sorella aveva decretato che io fossi troppo grande. Allora, al mio compleanno, me ne ero fatta regalare una nuova; era talmente bella che anche lei ne era rimasta affascinata e non mi aveva detto nulla.
Ma, soprattutto, mi ero ostinata a riferirmi a me come a una bambina per tutto il tempo che avevo potuto, e a chiamare bambini quelli che avevano la mia età. Alle medie, però, non era sembrata più una cosa socialmente accettata e avevo dovuto smettere. Ma provavo un intenso piacere quando qualche adulto sceglieva di rivolgersi a me in quel modo; qualsiasi adulto, in qualunque momento, che mi chiamasse bambina, aveva tutta la mia riconoscenza. Ho il ricordo di una mattina al mare come tante altre in cui sono all’edicola con mia zia; lei compra i giornali per sé e per gli altri adulti della famiglia, a me compra un fumetto di Topolino. Era una serie che facevano in quel periodo, una sorta di Topolino in un mondo di fantascienza, e sulla copertina quel giorno c’era un mostro orribile, mezzo squalo e mezzo qualcos’altro. Una signora che comprava i giornali lo aveva guardato inorridita e aveva sentenziato, con un sorriso: “Ah, le cose da bambini”. Era stata una mattina meravigliosa.
Ero quindi passata a definirmi ragazzina e a chiamare i miei coetanei ragazzini; non avrei fatto di più di così. E, invece, a volte, non sembrava sufficiente, perché molti usavano addirittura la parola ragazzo/ragazza. Ricordo un’interminabile telefonata con un mio compagno di classe (con cui facevamo sempre chiamate interminabili, perché lui parlava tantissimo, io parlavo tanto e inoltre confrontavamo insieme gli esercizi per il giorno dopo, soprattutto quelli di matematica); il giorno di quella chiamata doveva essere successo qualcosa a scuola che ci aveva fatto molto arrabbiare, legato al cortile e a giochi che si potevano o non potevano fare, credo, e lui continuava a ripetere “sono un ragazzo e voglio poter giocare” e io ripetevo le stesse cose ma sottolineavo il suffisso ina, “sono una ragazzina”. Mi sembrava francamente ridicolo essere chiamata con lo stesso nome vago che abbracciava persone grandissime, che non andavano più a scuola, guidavano, lavoravano e magari avevano pure dei figli loro.
Il termine ragazzina, invece, mi piaceva, e mi aveva quasi fatto fare pace con quell’orribile faccenda della crescita. Nel termine ragazzina mi vedevo bene, mi sentivo un incrocio tra Pippi Calzelunghe, Diana di Diana, il Cupido e il Commendatore (soprattutto quando avevo dovuto mettere gli occhiali, in seconda media) e qualche animale scattante, come uno scoiattolo.
Era un termine con il quale riuscivo, a volte, a muovermi in quel mondo stranissimo, quel mondo talmente pieno di sensazioni, suoni, colori e odori da diventare difficile da gestire. Quel mondo così carico da sfuggire a ogni tentativo di organizzazione. Si infilava, con i suoi dettagli, in ogni angolo che trovava.
E allora arrivavano l’Odore della primavera e la distesa infinita dell’estate, ma non solo.
Arrivava una luce fortissima dentro a tutte le cose. Era dentro a orribili telefilm, nel campo rosso del corso di tennis. Era dentro ai libri. Era nei pranzi in cucina e nella solita pasta al sugo. Nei quaderni dei compiti da finire mentre fuori c’era il sole. Era nei gelati e nella difficile scelta del gelato. Era nella nostalgia di casa. Nella ripetitività dei giorni uguali, che però erano tutti diversi. Negli spazi quotidiani che diventavano trasfigurati.
Una potenza, una luce fortissima che non ho trovato mai più. Chissà, forse mi sentivo sperduta non tanto perché non la sapevo gestire, ma perché sapevo che l’avrei dovuta lasciare.
Ogni quindici giorni, pandipanico verrà ospitata sulle pagine di Aware, ogni volta con un panico nuovo, nella nostra sezione dedicata al tema salute mentale. Qui il blog: https://pandipanico.blogspot.com/.
Clicca sulla pagina autrice per leggere i precedenti articoli!