Storie di ordinaria povertà dalla strada boliviana. La stessa realtà che si tocca con mano anche nelle nostre città, dove esseri umani sono trattati alla stregua di criminali, seppelliti e dimenticati sotto il tappeto della periferia. Una coperta e una giacca sono la nostra colpa, la nostra vergogna.
È qui, accartocciato nella fanghiglia di una terra marcia, tra bottiglie di vetro vuote e mattoni sbucciati accatastati qua e là. Al primo sguardo non sembra nemmeno una persona, ma un groviglio di panni consumati ammonticchiati nell’attesa di essere portati via. Il flebile tremolio delle labbra, il tremito di una mano, sono le ultime gocce di una vita stanca che gli scivola via. Solo, vuoto, avvolto nella consapevolezza macabra di non aver altro appiglio a questo mondo della ghiaia grigia divenuta letto.
Con uno sforzo indicibile ci sospira il suo nome, Luis, guardandoci senza luce mentre le pupille prendono il colore vitreo di una perla sbiadita. Non ha fame, non ha sete, non può muoversi, la disperazione della solitudine parla con un respiro senza suoni rotto solo dai rantoli sommessi del petto e le smorfie impercettibili della fronte. Le nostre mani lo accarezzano cercando di infondere vita, come se fosse sufficiente un contatto.
Ha bisogno di un medico, subito. Chiamiamo il centralino dell’ospedale più vicino, dopo minuti ci risponde una voce distratta. «Può pagare l’intervento? Ah vive in strada? Magari è anche alcolista? Niente da fare, se non può garantire la copertura di tutte le spese l’ambulanza non si muove». Riattacca. Impotenti, proviamo a chiamare i Servizi Sociali, la Polizia locale, i bomberos. L’attenzione per quelle quattro ossa in fin di vita è inversamente proporzionale ai tempi di risposta alle telefonate. È solo un altro alcolista accasciato di fronte al proprio dramma d’infelicità e solitudine. Non merita aiuto, non merita assistenza, nessuno se ne prenderà carico. Restiamo immobili, freddi, come se di fronte a quella sfilata di placida indifferenza anche noi stessimo perdendo grammi di luce e vita.
Luis è lì, con gli occhi bianchi sembra chiedere, implorare un miracolo che non ha forma. Il respiro si fa più molle, il petto tamburella a un ritmo sempre più lento, le gambe sono incollate al fango. Non possiamo portarlo con noi, non sappiamo aiutarlo, lo guardiamo con supplica, le mani lo accarezzano indecise. È il capezzale della strada, una veglia di fango amaro e attesa impregnata del sapore acre di un mondo lontano, assente. Si fa sera; attorno, nel mondo al di fuori di quel fazzoletto di terra e cocci di vetro, si accendono i primi lampioni rossi. Sale piano un sapore di fresco e fumo leggero.
Dobbiamo andare, altri volti sofferenti da incontrare, angoli bui in cui fermarsi con il lume fioco di una zuppa calda versata nei colli di bottiglia. Stendiamo una coperta calda alle gambe, con una giacca nascondiamo il ticchettio del petto. Dobbiamo andare. Lo lasceremo lì con una coperta infeltrita e una giacca consumata. Altri Luis ci aspettano.
Lo guardo, un’ultima volta, Cristo calpestato steso nel suo sudario, lo guardo e capisco che quella coperta e quella giacca portano il peso di una distanza, il profumo fetido di una coscienza che lava con lo sputo le croste della propria inutilità. Quella coperta e quella giacca hanno stampate addosso le impronte delle milioni di mani che si pensano lontane da tutto ciò che sia fatto di povertà. Chiare, nitide, violente. Quella coperta e quella giacca sono sporche delle impronte degli operatori d’ospedale, che nonostante la legge preveda il diritto alla sanità pubblica si rifiutano di medicare chi non ha il denaro per pagare. Sono sporche delle impronte degli assistenti sociali e delle autorità che trovano sconveniente intervenire quando il buio della sera e la piccolezza della persona in pericolo non garantiscono una buona pubblicità. Sono sporche delle impronte di chi crede che storie come quella di Luis siano racconti lontani dai quali sfuggire, figli di una colpa da biasimare, condannare, come un’infezione purulenta e contagiosa. Sono sporche delle impronte di tutti noi che siamo vissuti nell’abitudine di un agio senza meriti e abbiamo dimenticato cosa sia la disponibilità a lasciarci visitare dalla povertà.
Lo lasciamo lì, sofferente, moribondo, con una coperta consumata e una giacca, accompagnati dalla promessa vuota di tornare presto.
Torniamo. Luis non c’è, al suo posto qualche coccio rotto. Gli occhi rossi di alcol puro dei compagni di strada ci raccontano che se n’è andato. È morto in casa, raccolto dalla pietà dei genitori anziani ormai stanchi del suo peso. Chiudo gli occhi e lo immagino steso nel suo letto, finalmente pulito, coperto da abiti profumati e una coperta nuova, negli occhi i colori placidi della sera.
Chissà dove saranno ora quella coperta sgualcita e quella giacca. Forse nascoste in un fazzoletto di marciapiede o buttate in qualche cassonetto lontano. Il segno del peccato di questo mondo sarà dimenticato col buio della prossima notte. Tutto quello che resta sono gli occhi di cera grigia finalmente spenti.
Luis è morto e con lui un brandello della nostra serena umanità.