Nelle vallate scoscese di Huehuetenango, la regione nord-orientale del Guatemala, molti dei giovani più in forma preferiscono tentare la sorte sorpassando a piedi il vicino confine con il Messico, inerpicandosi in cammini di fortuna sino alla frontiera con la California. È un viaggio di speranza e riscatto che spesso crolla nella disperazione. A volte la traversata riesce e con il lavoro nei cantieri possono sostenere familiari e amici lasciati alle spalle.
“L’ultimo dei miei figli maschi è partito per gli Stati Uniti un mese fa. Non so ancora nulla di lui, ha detto che quando arriva mi fa sapere. Purtroppo qui non ci sono grandi opportunità e lì può guadagnare in un mese quello che noi guadagniamo un anno. Prego per lui”.
Quando parla dei suoi figli Doña Wilma abbassa la voce e inclina leggermente lo sguardo verso i piedi, quasi a voler nascondere quella fragilità impaziente di mamma. Si osserva un po’ le mani e sembra leggerci dentro la risposta a tante domande sospese; dov’è adesso il suo figlio più giovane? Tornerà mai a casa quello più grande? Quanto renderà il caffè il prossimo anno? …
Nella campagna del Petatan, dipartimento di Huehuetenango, la vita delle comunità è intrecciata a doppio filo a quella dei chicchi di caffè. La giornata inizia e finisce seguendo i capricci delle foglie larghe, i loro colori, le loro venature.
Il caffè è la benedizione e la dannazione della terra; a seconda del suo rendimento dipende l’intero anno delle famiglie che lo coltivano. Basta un inverno più lungo del previsto o una siccità più intensa e la fragile sicurezza delle caficultrici si sgretola, fino a rimanere aggrappata alla speranza che il prossimo anno possa andare meglio.
Quando una pianta si ammala l’attenzione dell’intera famiglia è rivolta a lei in maniera visceralmente umana. Quando la pianta recupera il suo colorito di clorofilla si ringrazia la Vergine come si fa con i cari.
“Io prima lavoravo per un’azienda che ha tantissime piante di caffè. Dalla mattina alla sera tardi, con poco riposo. Non era facile seguire la famiglia e la paga non era buona. Ora con mio marito abbiamo le nostre piante di caffè. Il lavoro è sempre tanto ma posso tornare a casa per cucinare alle mie bambine quando ce n’è bisogno. E poi quest’anno sta piovendo già, significa che ci sarà un gran raccolto”.
A questo punto mi guarda un po’ di traverso, come fanno i bambini quando vorrebbero chiedere qualcosa ma non sanno se possono. Ci pensa su qualche secondo, con gli occhi stretti e le sopracciglia tirate verso il naso ad angolo acuto. Poi spostando le pupille verso le foglie delle piante pronte per la prima fioritura, mi chiede d’un fiato: “Ce lo ricomprerete il caffè il prossimo anno? Ci è piaciuto quello che abbiamo fatto l’anno scorso, e poi il concime ci aiuta tanto a far crescere le piante”.
AMKA è un’organizzazione che da più di dieci anni supporta le comunità locali guatemalteche con progetti di sviluppo sostenibile in ambito agricolo e da un paio di mesi mi occupo di gestirne le attività nel paese.
L’anno scorso l’associazione ha lanciato un programma a supporto delle piccole caficultrici dell’area di Petatan e più di ottanta donne sono state coinvolte in un processo di accompagnamento tecnico ed economico. Al termine del ciclo di produzione, grazie al supporto del partner italiano Caffè Speciali Certificati, AMKA ha potuto acquistare circa cinquecento quintali di caffè pergamino direttamente dalle produttrici, riconoscendo un prezzo superiore a quello di mercato e coprendo tutti i costi di trasporto. Per le donne è stata la prima volta che hanno avuto l’opportunità di interfacciarsi direttamente con chi compra senza dover sottostare al gioco speculativo dei grandi intermediari locali, i cosiddetti “coyote”.
Doña Wilma mi scruta attenta aspettando una risposta alla sua domanda. Quando le dico che stiamo lavorando perché il progetto prosegua il prossimo anno, sposta ancora lo sguardo verso le piantine cariche di foglie come grappoli, quasi a volerle tranquillizzare. I primi germogli si vedono già.
“Sono contenta, è buono questo”.
Mi dice con la stessa voce bassa e timida che aveva quando parlava del figlio.
Io la osservo con una punta di ammirazione, leggendo in quel suo sussurro la speranza che un domani non ci sia più bisogno di salutare i propri figli nell’incertezza di un futuro lontano.