Pubblicato nel 1939, Furore di John Steinbeck è il manifesto impietoso della Grande Depressione americana, la storia della “generazione perduta” e dello sgretolarsi definitivo di un sogno. L’altra faccia a stelle e strisce.
Sulla Route 66 un’umanità sradicata insegue la California, quasi un miraggio di alberi d’arancio, sole, colori. Dietro, abbandonata per sempre, la zolla amata e “accarezzata”, la casupola dell’infanzia, l’aratro ormai inutile, bestie familiari e un brulicare di vita umile ma autentica. E insieme alla stalla abbattuta e alla terra divelta, a morire è un universo intero.
L’epopea della famiglia Joad è la stessa di migliaia di famiglie che, dal Midwest, sono costrette a migrare, profughi e stranieri nella loro stessa Patria. È la crisi dell’America bianca, il suo fallimento, il suo scomporsi e sparire sotto il fango e la polvere delle Dust Bowls.
Ma i frutti dell’odio maturano anche e soprattutto sotto fango e polvere, ed anzi se ne nutrono avidamente. La vendemmia si avvicina. Il furore esplode. Chi ne raccoglierà il succo?
LA CITAZIONE:
«Bè, magari è come diceva Casy, che uno non ha un’anima tutta sua ma solo un pezzo di un’anima grande, e così…non importa. Perchè io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutti i posti… dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. Se Casy aveva ragione, bè, allora sarò negli urli di quelli che si ribellano… e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito… bè, io sarò lì. Capisci?»
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