In occasione del Transgender Day of Remembrance abbiamo intervistato Ilaria Ciavattini ed Elsi Perino, le prime registe in Italia a produrre un film documentario che parla di transizione da donna a uomo. Streeen è orgogliosa di aggiungere, proprio oggi, in esclusiva al proprio catalogo il film d’esordio delle registe italiane intitolato “Un uomo deve essere forte” (2019).
Nel racconto della transizione FtM di Jack troviamo l’unicità complessa della storia al singolare, fuori da sterili cliché e stereotipi di massa. Un bagno di consapevolezza che ci aiuta a “smetterla di parlare conto terzi e costruire insieme a Jack una narrazione il più verosimile possibile”.
Avete iniziato a lavorare al progetto dal 2015 e scelto di realizzare un film di 62 minuti concluso nel 2019, in cui si racconta ogni fase del cambiamento di Jack. Quanto è stato difficile individuare tutti gli aspetti del cambiamento che volevate mostrare e che hanno caratterizzato il cammino intrapreso da Jack?
Durante la lavorazione abbiamo speso i primissimi mesi a conoscere Jack e abbiamo innanzitutto cercato di ottenere la sua fiducia, senza la quale non saremmo riuscite ad entrare in contatto con lui e con tutto il contesto intorno a lui. A seguire ci siamo messe in ascolto, avevamo sempre con noi la camera, che è diventata parte del nostro corpo cinematografico e abbiamo cercato di documentare la storia mentre si stava svolgendo. All’inizio non sapevamo fin dove saremmo arrivate, ma Jack ci ha aiutate a leggere il suo cambiamento, spesso guidandoci in una scelta narrativa che si è poi finalizzata in fase di montaggio. Potremmo dire di aver accompagnato Jack nella fase cruciale del percorso, ma sarebbe riduttivo credere che una transizione possa concludersi con le operazioni chirurgiche o il cambio anagrafico, o quantomeno non è detto che sia così per chiunque la metta in atto.
Avete lavorato per quattro anni a questo film, qual è stato il motivo che vi ha spinto a iniziare?
L’idea nasce da un lavoro di scrittura che ci era stato commissionato. In poco tempo avevamo raccolto materiale per prepararci e letto molto di quel che era stato prodotto e tradotto in Italia. Buona parte di quel che trovammo aveva in comune un tono punitivo colmo di stereotipi. Da qui nacque la volontà di voler raccontare una storia diversa; propositiva e più aderente possibile al modo in cui le persone affrontano il percorso. Ci interessava restituire un percorso nella sua enorme complessità e per farlo abbiamo deciso di seguire tutte le tappe che in Italia vengono imposte dallo Stato per ottenere il cambio anagrafico: percorso psicologico, percorso endocrinologico e iter legale.
Oggi la Streeen aggiunge al proprio catalogo il vostro film, in occasione del TDoR, giornata mondiale nata nel 1998 in seguito all’omicidio di Rita Hester, una donna trans, uno dei tantissimi omicidi transfobici di quei decenni. Questa giornata non solo rappresenta l’orgoglio delle persone trans, ma è commemorativa e vuole ricordare tutte le vittime della transfobia. Quando avete scelto di realizzare la pellicola, avevate un obiettivo particolare?
L’obiettivo era di stare nella complessità. Non abbiamo mai avuto la pretesa che quella di Jack potesse essere una storia universale; volevamo sicuramente allontanarci dai cliché. Siamo sempre state consapevoli che quella di Jack sia una storia declinata al singolare, che racconti quindi la sua transizione e non necessariamente quella di tuttə. L’obiettivo era soprattutto smetterla di parlare conto terzi e costruire insieme a Jack una narrazione il più verosimile possibile. Abbiamo cercato di costruire un rapporto tra pari, senza trincerarci nei ruoli regia- personaggio / parlante- parlato. È una storia che andava raccontata lasciando che la regia facesse un passo dietro alla camera rispetto al personaggio lasciandolo molto libero e intervenendo il meno possibile.
A chi è rivolto il film? E quanto e cosa immaginate che possa portare il vostro film al pubblico?
Non abbiamo mai avuto in mente un target in particolare. Nell’arco della lavorazione il tema delle transizioni ha iniziato ad avere molto più spazio nel discorso comune, nei media e nelle rappresentazioni. Pur essendo il nostro un film di genere abbiamo sempre avuto in mente un pubblico generalista perchè è il tipo di pubblico che più spesso è stato spettatore di narrazioni distorte e stereotipate. La domanda centrale, a nostro avviso, è – chi sono- una domanda che tuttə dovrebbero avere il coraggio di farsi. La risposta cambia da persona a persona, certo, ma l’onestà nel cercare la risposta e la tenacia nell’ottenerla è lo scheletro che vogliamo isolare come tema universale.
Il titolo “Un uomo deve essere forte” contiene parole che possono voler comunicare un messaggio molto ampio.
Il titolo nasce da una riflessione che lo stesso Jack fa nell’intervista iniziale, che abbiamo poi reso il filo conduttore di tutto il documentario; durante la lavorazione Jack ha messo profondamente in discussione la mascolinità in senso ampio e il titolo è rimasto come una provocazione, che vuole omaggiare il più noto “Boys don’t cry”. Tra i nostri obiettivi c’è stato infatti quello di leggere la realtà della valle come una cartina al tornasole della nostra società attuale, nell’intento di chiederci cosa significhi davvero essere un uomo, al di là delle semplificazioni spesso tossiche a cui tutti noi siamo sottoposti.
In una società come quella del nord Italia in cui si è trovato Jack, fatta di vita operaia in fabbrica, caccia sportiva e laghetti da pesca, quanto ha dovuto essere forte quando ha maturato la consapevolezza e iniziato il suo cambiamento? Più in generale, nella società odierna in cui è sempre più grande la difficoltà a riconoscere chi siamo e staccarsi da un modello di genere preconfezionato e calato dall’alto, quanto nella vita di una persona in transizione è importante sentirsi supportati in questo percorso?
Nonostante la provincia cronica da cui Jack proviene potrebbe far credere che compiere una transizione sia impossibile, questa storia ci ha mostrato come il singolo sia capace di far transizionare chi sceglie intorno a sé come famiglia. Una delle scoperte per noi meno prevedibili è stata proprio esperire la naturalezza con cui un’amica o un fratello possano accogliere un percorso sulla carta così complesso, per il solo fatto di amare chi lo sta compiendo. La possibilità, insomma, che le buone pratiche esistano anche in contesti potenzialmente più difficili, perché è la comunità a fare la differenza. Jack ci ha mostrato la potenza di chi si interroga su quali siano i modelli offerti dal luogo in cui ci si trova, offrendo un’alternativa che ingenera anche negli altri delle riflessioni su chi si è. La spontaneità con cui Jack ha saputo far emergere il proprio io è e rimane un gesto che, nella sua potenza, diventa politico.
Quanto realismo c’è nel racconto della storia e quanto invece avete scelto coscientemente di enfatizzare alcuni aspetti?
Il realismo è totale perché si tratta di un documentario in cui niente è stato scritto o suggerito. L’unico intervento di scrittura vero e proprio è stato il montaggio, condotto in finale e cercando di restituire allo spettatore un racconto il più aderente possibile allo svolgersi temporale e ai “volumi” che Jack sentiva e comunicava. L’unico intervento che interrompe la temporalità è stato quello di far ritornare nel racconto la prima intervista che abbiamo fatto a Jack all’inizio della sua transizione. È un’intervista fatta durante la prima sessione di riprese e che nell’arco di quindici minuti racconta con limpidezza cristallina tutti i primi 25 anni di Jack. Volevamo che lo spettatore, guardando il film, non dimenticasse il punto da cui Jack era partito; è necessario per considerare quanti e quanto potenti siano i cambiamenti fisici e caratteriali in un arco di tempo di tre anni.
Ci piace l’idea, insieme all’invito di vedere il film, di lanciare un messaggio in più a quanti ci leggono: quale messaggio mandereste alla comunità transgender? Quale all’umanità in senso ampio?
Ci auguriamo che il documentario porti avanti la discussione, aiuti a farsi domande nuove e contribuisca ad ampliare il pubblico che smonti gli stereotipi a cui siamo sottoposti, nell’ottica di una prospettiva nuova, più inclusiva e più autoriflessiva, sempre partendo dall’assunto che la storia di Jack è solo di Jack e non vuole essere un’esperienza generalizzabile.
Avete qualche altro progetto su cui state lavorando? Ci spoilerate qualcosa?
Sicuramente sarà un documentario. Stiamo studiando e scrivendo. Il tema della ricerca identitaria non possiamo considerarlo completamente concluso, così come l’indagine sugli stereotipi legati alla mascolinità tossica.
In una giornata fondamentale per la comunità LGBTQIA+ (e non solo) come il TDoR, ringraziamo Ilaria Ciavattini ed Elsi Perino per il grande lavoro che hanno svolto e Streeen per la condivisione e divulgazione del documentario con cui si mostra col corpo e sul corpo la potenza di uno stravolgimento prima di tutto identitario.
Opere come “Un uomo deve essere forte” mettono in discussione le posizioni dell’individuo, le stravolgono, spingendoci a sgretolare certezze di genere che provengono dalla generalizzazione e avvicinarci all’identificazione con la singola storia.
Vogliamo sperare che racconti del genere contribuiscano a diffondere inclusività, rispetto e comprensione verso la singolarità dell’identità personale ed amore e accoglienza verso l’individuo in una prospettiva nuova, ampia e autoriflessiva.
*Intervista a cura di Monica Trovato.