Comincia con questo articolo lo spazio dedicato al racconto della malattia mentale, da qui in poi ogni venerdì nella sezione ConsapevolMente, sotto il tag Il diario della depressa. Perché il modo migliore per abbattere lo stigma sulla depressione (e non solo) è dire ad alta voce il suo nome liberandosi dalla vergogna e dal giudizio imposto. Per scoprire che non si è soli in questa storia.
Questa volta non l’ho vista arrivare. Si è nascosta per giorni nell’ombra, muta e guardinga, aspettando il momento giusto per stanarmi. Funziona così, con lei. Almeno ora. Non sono mai io ad accorgermi per prima della sua presenza, è lei che paziente si accampa agli angoli della stanza – una qualsiasi – mimetizzandosi tra banali oggetti quotidiani – gli appunti sulla scrivania, i vestiti stropicciati sulla sedia, il libro sul comodino. Sta lì ad osservarmi con il suo respiro di ruggine e gli occhi semichiusi da sotto il tappeto o dalla tazzina del caffè, disseminando qua e là indizi della sua presenza che non sempre colgo. Si appiatta sul pavimento, nella doccia, tra le lenzuola, pronta a saltarmi addosso alla minima distrazione. Più non la guardo, più si rafforza. Più la escludo, più è cattiva quando torna, gelosa di non essere stata al centro della mia vita per quelle 2 o 3 settimane o 48 ore.
Spesso si cela tra i volti di amici e amanti, a volte mi capita di intravederla come un alone bianchiccio che ne deforma i visi dissolvendone i tratti. Una macchia che comincia ad allargarsi ingoiandosi tutto quanto tocca, facendo evaporare i contorni del reale, smussando i confini tra mondi e cose, e allora tutto diventa confuso, traballante, tutto e niente allo stesso tempo. Mi sembra di vagare per un tempo infinito in una versione opaca e ovattata della mia realtà, come se si fosse aperto un varco e fossi stata catapultata lì, improvvisamente, senza il mio consenso. Ma anche questo ad un certo punto finisce e la meta è il Nulla. Quando arrivo lì – non sempre, ma ci arrivo spesso – è un blackout istantaneo. Sparisce tutto, non esiste più niente, il corpo diventa leggerissimo, poi pesantissimo, poi di nuovo leggero. Le tempie pulsano, sento i nervi scoppiare, poi non li sento affatto. Non sento più, semplicemente. Non c’è niente da sentire. Maree, ondate di nero vanno e vengono attraversandomi i capelli, sbattendo sulle pareti e tornandomi addosso. È un vuoto completo e perfetto, ora quasi rassicurante, ora terrificante, poi semplicemente è.
Ho perfezionato negli anni questa descrizione, anche se sto lasciando da parte molto. E nonostante questo, nonostante la consapevolezza raggiunta, nonostante l’equilibrio conquistato – precario, ma pur sempre equilibrio – eccomi qui ad ammettere, ancora una volta, che no, questa volta non l’ho proprio vista arrivare. Mi è piombata addosso all’improvviso, esplodendomi nella nuca come un lampo. Due giorni prima raccontavo ad una persona che avrei scritto una rubrica sulla salute mentale. «Tipo diario, voglio raccontare questa storia, ora sono pronta sai? Magari ne esce fuori qualcosa di bello, utile, non so…». Ironia della sorte. Dopo due giorni ero bloccata sul letto a fissare il soffitto, il telefono spento, caterve di chiamate e messaggi ignorati. Dopo cinque giorni ho passato un’ora e mezza alla finestra, di mattina, a guardare la vita scorrere non riuscendo a provare il benché minimo interesse per quell’ammasso informe lì fuori. Dopo sette giorni ci ho riprovato e le fronde degli alberi che si aprono a ventaglio davanti la palazzina in cui abito mi hanno riportato leggermente sul Pianeta Terra. Il nono giorno ricordo di essermi sciacquata la faccia tre volte, di aver fissato il mio volto a lungo nello specchio riuscendo a metterlo a fuoco, di essermi vestita ed essere uscita a comprare 3 pesche, 1 cespo di lattuga e una pagnotta di pane al mercato. Uno sforzo da cui mi sono dovuta riprendere per tutto il resto della giornata. Il decimo giorno ho riacceso il cellulare.
Quella sera ho capito una cosa, mentre a poco a poco sentivo le fibre del mio essere svuotarsi da quella marea nera. Quando ti trovi a cadere nel Nulla è come se il corpo non fosse più il tuo. La chiamano depersonalizzazione o derealizzazione, credo che il termine tecnico sia questo. Ci si sente così quando si è in piena crisi depressiva, è uno dei sintomi più classici. Ti guardi da fuori, qualunque cosa tu faccia. Sei tu, ma sei altro, sei altrove, è difficile da spiegare. Come in quei film scemi in cui il protagonista muore e la sua anima guarda dall’alto il corpo che una volta abitava. Ecco, così. Sei fuori e ti guardi dall’alto, ti osservi in quello stato e ti fai schifo. Non c’è un modo più bello per dirlo, mi spiace. Ma vedersi da fuori in qualche modo t’aiuta a capire che, in fondo, un fuori c’è. Magari è una stronzata, ma per me è stata un’intuizione rivoluzionaria. «Devo solo capire come tornare lì fuori». Questo è il compito più difficile e a volte richiede giorni, altre settimane, a volte persino mesi.
L’undicesimo giorno mi sono raggiunta lì fuori. Mi sono stretta a me. Ho sentito il fruscio ruvido di quella bestia far tintinnare un po’ i vetri e poi disperdersi nella stanza. «Chissà dove si sarà nascosta questa volta», ho pensato. Io lo so che è qui, è sempre qui che mi aspetta, che mi studia provando ad imitare i miei gesti e rubandomi sentimenti ed emozioni, anche quelli belli, soprattutto quelli. Li prende e li trasforma. Non la vedo sempre arrivare, è vero, ma ormai la conosco bene. Sarà andata a riposare in qualche crepa nella parete, nei tasti del telecomando, nella zuccheriera. Io lo so che è qui, ma so anche che anch’io ci sono e me ne stupisco ancora, perché è sempre una lotta dall’esito incerto, anche se l’hai vissuta già altre mille volte.
Quella sera, prima di andare a dormire, con addosso ancora il timore bianco di perdermi di nuovo, ho fatto una cosa. Ho preso il mio diario. Ho afferrato una penna. In caratteri cubitali e un po’ incerti ho scritto questa frase: Questa volta non l’ho vista arrivare. Ho fissato qualche minuto la pagina, cercando di capirne il perché. Scrivere mi aiuta a mettere in ordine pensieri e sensazioni, è sempre stata la mia terapia. Allora ho capito. Non l’ho vista arrivare perché ero impegnata a vivere, ecco perché. Ho ricordato allora il passato – 3 o 4 anni fa – quando non c’era pericolo di essere assalita alle spalle, di soppiatto, perché non esisteva riposo tra un agguato e l’altro, la depressione mi accompagnava in ogni momento, attaccata alle mie caviglie come un gatto randagio, a rallentare il passo. Il suo ultimo scherzo è stato farmi credere che il non vederla, il non sentirla come un ronzio costante nell’orecchio, fosse cosa negativa. Bastarda.
Non lo è. È la prova che, seppur ancora a fatica e sempre in bilico tra un mondo e l’altro, ho scelto di gran lunga la vita.
Questa è una storia vera e ho appena cominciato a raccontarla.
[Continua ogni venerdì su Il diario della depressa, sempre nella categoria ConsapevolMente].