Pierpaolo Capovilla è un cantautore, bassista, attore e artista poliedrico, rivoluzionario. Già frontman del Teatro degli Orrori e dei One Dimensional Man con cui ha cantato, urlato e sfogato la rabbia e il disagio sociale di numerose generazioni passate, presenti e future, nelle sue esibizioni porta l’attenzione sulle tematiche che più gli stanno a cuore, senza paura e con una sincerità surreale.
In vista della performance che ci regalerà tra i faggi della Majella nella serata di chiusura del Festival delle Cose Belle – Ferragosto Resistente 2021, durante la quale interpreterà dei brani tratti da “Succubi e Supplizi” di Antonin Artaud, abbiamo avuto il piacere di fargli qualche domanda, ricevendo in cambio un’intervista piena di verità sulla sua storia, sulla nostra società e sulle cose che contano davvero.
Speriamo rappresenti un valido assaggio di ciò che accadrà dal vivo nella sua esibizione meta-teatrale al Festival delle Cose Belle il 15 agosto.
Il teatro fa parte della tua vita sin dal tour del 2011 con il progetto di letture su Majakovskij. Come e perché pensi sia nato in te il desiderio di mostrarti al pubblico, “discostandoti” dal ruolo di cantante, per abbracciare l’esperienza attoriale e di interpretazione di testi altrui?
Durante il tour di ‘A sangue Freddo’ portavo con me, come sempre faccio, una manciata di libri nel bagaglio. Fra questi la bella raccolta poetica di Majakovskikj, quella curata da Guido Carpi (che in seguito avrei avuto il piacere di conoscere, proprio in occasione di una lettura majakovskijana presso Je So Pazzo, centro sociale fra i più belli di sempre, a Napoli). La presi con me un po’ per caso, un po’ per destino. La notte, dopo i concerti, spesso ubriaco e comunque sempre iperadrenalinizzato dal palcoscenico, mi accadeva di leggerla ad alta voce, di enunciarne i versi. Lo stupore fu enorme. Nel silenzio di una stanza d’albergo, alle tre o quattro del mattino, mi chiedevo come fosse possibile che proprio dalla mia bocca, dal mio cavo orofaringeo, potessero uscire parole così vere e potenti. Fu un innamoramento. Mi lasciai sedurre dal poeta. Mi sembrava fosse lì con me, dentro di me. Non riuscii più a smettere. Lo studiai e lo studio ancora con passione quasi religiosa. È divenuto un compagno di viaggi, un amico amorevole, un fratello. Majakovskij si rivelò alla mia persona come un profeta d’avventure, un istigatore politico, un vecchio santo. Mi disse, mi diceva e mi dice ‘Pierpaolo, la vita è troppo breve perché non si trasformi in lotta’, e proprio mentre stavo scivolando nel cinico nichilismo dei nostri tempi, mi ha fatto riscoprire la voglia di politica, di militanza.
Vieni da un sottosuolo scuro ed hai alle spalle anni di concerti definitivamente punk. L’accostamento al mondo del teatro, una realtà più “letteraria” se vogliamo, potrebbe erroneamente far pensare ad una svolta snob (spero mi passerai il termine). Hai mai dovuto giustificare questa tua scelta o comunque ti sei mai sentito giudicato dai tuoi fan per questo?
No, santo cielo, no. Anzi. I miei fan hanno gradito, e molto, questo avvicinamento alla poesia e al teatro. In fin dei conti, che cos’è un concerto rock se non una rappresentazione teatrale? Sono stato per anni il cantante di una band dal nome Il Teatro degli Orrori. Se non è questo un destino…
Al Festival delle Cose Belle ti esibirai con “Interiezioni”: una serie di testi tratti dalla raccolta “Succubi e Supplizi” di Antonin Artaud, che verranno interpretati in uno spettacolo meta-teatrale in bilico fra poesia e sperimentazione musicale. Cosa ti ha spinto a scegliere Artaud come nuovo soggetto per le tue letture?
Il mio interesse per Artaud risale all’università, quando studiavo filosofia. La mia compagna del tempo mi obbligò, letteralmente, a leggere ‘Il Teatro e il suo Doppio’. Mi sono avvicinato alla sua poesia, e in particolar modo a quella ‘manicomiale’, solo recentemente. Al Festival dai Matti, a Venezia, qualche anno fa ormai, conobbi Piero Cipriano e Giovanna Del Giudice, il primo psichiatra democratico e basagliano di formazione anarchica, la seconda ex collaboratrice di Franco Basaglia ai tempi dell’esperienza triestina. Di lì a poco mi chiesero di progettare uno spettacolo in favore della campagna ‘E tu slegalo subito’ per l’abolizione della contenzione meccanica nei servizi psichiatrici, promossa dal Forum Salute Mentale. Ne fui onorato. Scelsi ’Succubi e Supplizi’ perché è certamente un’opera altamente significativa, se non paradigmatica, sull’esperienza del manicomio. Artaud la scrisse, anzi, la dettò ad una dattilografa durante la sua permanenza nell’ospedale psichiatrico di Rodez (un raro caso di letteratura ‘orale’ del Novecento, dovuto alla parkinsonizzazione del poeta) dove in un paio d’anni subì qualcosa come un centinaio di elettroshock. Da non crederci. ‘Succubi e Supplizi’ è una vera e propria discesa nell’inferno del manicomio novecentesco, una summa delle violenze e delle prevaricazioni che la pratica psichiatrica può infliggere al paziente ridotto a puro corpo del quale indagare il disturbo psichico attraverso l’assunzione di droghe, farmaci e elettricità. Questa riduzione a corpo reificato della persona disumanizzata è la caratteristica principale della psichiatria del novecento ed anche di quella contemporanea, esattamente ciò che Basaglia volle e seppe combattere in favore di una visione umanistica della cura, che riportasse il sofferente psichico nell’alveo della persona, con i suoi diritti e necessità. Si trattò di una visione diametralmente opposta a quella dominante del manicomio, e che portò l’Italia ad essere il primo e l’unico paese al mondo ad abolire il manicomio dal proprio sistema sanitario. In realtà i manicomi in Italia sono sì aboliti, ma non la loro falsa coscienza, che si ripresenta ogni giorno nei SPDC, i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, nei quali si continua a legare al letto di contenzione i malati, a sedarli, a distruggerne la personalità e, con essa, la dignità e la cittadinanza. Sentii dentro di me il dovere di contribuire alla battaglia del Forum Salute Mentale, senza indugi, e feci bene, perché ebbi modo non solo di conoscere da vicino la triste realtà di una psichiatria ridotta a crudele uso della forza, ma anche quella basagliana, meravigliosamente rivoluzionaria, condotta e messa in pratica da donne e uomini di grande valore morale, etico, politico, e naturalmente medico-scientifico. Ho conosciuto psichiatri come Giovanni Rossi, Peppe Dell’Acqua, Giovanna Del Giudice, e Piero Cipriano, divenuto amico e fratello, e con il quale ho cooperato e coopero con grande soddisfazione intellettuale.
L’anno appena trascorso ci ha messo a dura prova, portandoci il confronto con aspetti personali e sociali tenuti finora in disparte. Tra questi la tematica della salute mentale. C’è una qualche connessione tra la tua scelta di presentare le poesie di un autore, scritte nel suo periodo di costrizione fisica all’interno di un manicomio, e l’esperienza pandemica che ci ha costretti dentro le nostre case e per certi versi dentro le nostre teste?
La scelta fu anteriore alla pandemia, quindi direi di no. E certo… Casca a fagiolo.
A livello artistico/musicale a causa della pandemia ci si è trovati bloccati mentalmente e fisicamente dall’idea di non poter produrre, ma contemporaneamente di dover continuare a farlo per rimanere rilevanti e generare intrattenimento. Nella tua carriera hai mai sentito questa pressione del dover fare per non essere dimenticato?
Io faccio musica e teatro, narrativa e poesia, non per rimanere ‘rilevante’, ma per rimanere vivo. Del successo e del consenso popolare me ne infischio bellamente. È certamente vero che, come disse un poeta che non amo, D’Annunzio, ma del quale sposo convintamente la massima, ‘io ho ciò che dò’. Nessuna ricchezza materiale porterò con me nell’altro mondo, ma soltanto il buon ricordo di coloro che mi hanno amato. Non ho mai considerato l’arte nella sua funzione intrattenitiva, che pur esiste, ma in quella eminentemente politica, nel segno della critica delle circostanze storiche nelle quali sono costrette le nostre esistenze.
In un’intervista al concerto del primo maggio di quest’anno hai detto che “l’impegno sociale è il motivo stesso per cui fate musica”. Per questo ti chiedo, quanto pensi sia importante per un’artista il concetto di resistenza, in termini di lotta, ma anche di resistenza intesa come compromesso che spesso la figura dell’artista è costretta ad incontrare lungo la propria carriera?
L’impegno sociale è esattamente ciò che m’importa, come uomo e come cittadino del mio paese e del mondo. L’incertezza su questo tema non ha mai riguardato me, ma, forse, gli artisti con cui ho lavorato nel tempo. Mi è triste dirlo, ma temo sia così.
Per come la vedo io, la Resistenza coincide con la vita stessa, e non potrebbe essere altrimenti. La vita è lotta per un mondo più giusto e più uguale. Tutto il resto è noia. Noia quotidiana che ci viene imposta giorno per giorno da un sistema di cose che non abbiamo scelto, ma che c’è, c’è come l’aria che respiriamo. Ma, vorrei anche dire, del compromesso non so che farmene. Con chi, e per cosa, dovrei ‘compromettermi’. Non ne vedo ragione alcuna. Vengo da una famiglia sottoproletaria. Sarei potuto diventare un delinquente, finire in galera, o in mezzo al gran viale dell’emarginazione. E invece sono qui, a disquisire con te dei grandi temi che ci stanno a cuore. Mi è andata bene.
Insomma, il ‘compromesso’ non fa parte del mio mondo, dalla mia visione del mondo. Sarà perché son figlio di una suora e di un signore che voleva farsi sacerdote, sarà perché nella vita ho avuto insegnanti e educatori meravigliosi e progressisti, sarà che il mio amore per la musica è stato amore per i No Means No (un nome che è un programma), non per Bon Jovi, sarà perché ho letto Celine Artaud e Ducasse, sarà perché quando studiavo all’università sono incappato in Bonhoeffer, che credo nell’intransigenza dell’arte.
Iperconsumismo e nazionalismo sembrano essere diventati i mantra del nostro modello socio-politico di massa. Come siamo arrivati ad una idolatria così forte del singolo sulla comunità? E quali antidoti ci restano a disposizione?
Un intero ceto politico ha seminato negli anni il seme velenoso della falsa coscienza nazionalista, al consumismo più sfrenato ci ha pensato il neo-liberismo economico. Siamo in trappola. Non ci resta che indagare il presente, nella speranza di saperlo trasformare. Come disse Majakovskij, ‘per la felicità il nostro pianeta è poco attrezzato, bisogna strappare la gioia ai giorni futuri, dobbiamo dapprima trasformare la vita e, trasformata, la si potrà esaltare’.
Tu ti definisci un vetero-marxista, in collisione con il feticismo delle merci che non è un mero ricordo letterario, ma una rappresentazione reale della nostra società. Oggi più che mai siamo abituati a mistificare figure pubbliche per meri motivi economico/commerciali. In tutto questo quanto pensi che l’artista si possa, e si debba, ritenere responsabile dell’influenza che possiede e dei messaggi che veicola?
Marx comprese appieno il processo dialettico del capitalismo. La sua analisi è validissima anche oggigiorno. Il ruolo dell’artista, quando autentico, è analogo a quello dell’intellettuale: cambiare il presente nel segno di un futuro degno per le prossime generazioni. Se viene meno a questo compito, non è un artista, è un bel niente.
Nella società odierna si millanta spesso l’idea del corpo perfetto, noi di Aware con la tematica del festival “a corpo libero” abbiamo voluto sottolineare proprio il contrario: una celebrazione di tutti i corpi, indistintamente. Come ti poni a riguardo? In che modo secondo te si potrebbe cambiare la percezione distorta che abbiamo riguardo la ricerca continua della perfezione dei corpi?
O Gesù… In tutta franchezza… Non saprei cosa rispondere a questa domanda. Non ho mai ricercato la perfezione del mio corpo, anzi, me ne sono sempre infischiato.
Una considerazione però mi sorge spontanea. Credo siamo di fronte alla più classica delle ’sussunzioni capitalistiche’. Il capitale si appropria sempre non soltanto del lavoro, ma anche dei desideri e delle ambizioni della gente. Se nel ’68 la donna rivendicava, in una società eminentemente patriarcale, l’autonomia del proprio corpo nei confronti dell’uomo (‘maschio represso masturbati nel cesso’ era uno slogan frequente nelle manifestazioni del tempo), oggi quel desiderio di autonomia, emancipazione e indipendenza sembra essersi trasformato nel suo contrario: piacere agli uomini è divenuto un imperativo. Il capitale, passo dopo passo, senza fretta e sulla base delle circostanze storiche e delle trasformazioni del costume, ha sussunto quel desiderio trasformandolo in… merce. Basti rileggere Debord, per scoprire come lo ‘spettacolo’ sia diventato la merce per antonomasia, oggi più che mai. Ed è proprio attraverso lo spettacolo (e la spettacolarizzazione della propria persona) che è stato compiuto un passo ulteriore verso la reificazione della vita. Naturalmente questo, io credo, vale tanto per le donne che per gli uomini. È, insomma, una questione biopolitica.
So che stai lavorando ad un nuovo disco in uscita questo autunno, cosa dobbiamo aspettarci?
Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri, quasi una citazione di Nick Cave and the Bad Seeds. Spero mi porti fortuna. Sarà un disco violento e crudele. Al suo centro, il tema della guerra. Con me i correligionari Fabrizio Baioni alla batteria, Federico Aggio al basso, Egle Sommacal alla chitarra.
Aware è un collettivo indipendente che attraverso il festival di Ferragosto tenta di ricucire uno spazio in cui l’arte e l’incontro rappresentano il cuore pulsante della relazione. Cosa aspetti di ricevere tra i faggi della Majella? E quale credi sia il ruolo di collettivi culturali come il nostro nel panorama sociale contemporaneo?
Qualcosa mi dice che sarà un festival di idee, interlocuzione, socializzazione al di là e in opposizione del conformismo dilagante e dell’indifferenza strisciante che caratterizza la nostra contemporaneità. Sarò con voi nel segno della partecipazione e del desiderio di esserci.
E non non vediamo davvero l’ora Pierpaolo, ci vediamo tra i faggi!
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