Non è inusuale camminare per la spiaggia e notare i tatuaggi tribali che adornano il corpo di molti bagnanti. Questi simboli, appartenenti alla cultura Maori, hanno un significato vario e, in Occidente, quasi sempre molto generico; direi “commerciale”. Ma cosa si cela dietro alle linee e alle circonferenze tatuate? E, soprattutto, chi sono i Maori?
Maori e Pakeha
I Maori sono un popolo polinesiano diffuso principalmente in Nuova Zelanda e Australia. Il termine “māori” sta per “normale”, inteso nel senso contrapposto alla parola “invasori” (Pakeha, in lingua maori) riferito ai coloni inglesi. Gli invasori, che tra il Settecento e l’Ottocento sottomisero alla corona britannica diverse popolazioni, non riuscirono ad imporsi contro gli abili guerrieri maori, tanto da dover stipulare un trattato diplomatico nel 1840. Questo trattato, stipulato a Waitangi, ha visto anche la prima apparizione del concetto di “Tino Rangatiranga”, ovvero la sovranità assoluta che i Maori rivendicano sui propri gruppi etnici. La formazione della colonia neozelandese, comunque, non cambiò le intenzionalità degli autoctoni Maori, che rimasero distanti dalle altre etnie della nazione e dalla cultura inglese, da cui appresero soltanto la fede cristiana. Nel 1858 elessero un re per avere una propria figura di unità culturale, sempre mantenendo fedeltà ai patti del 1840 con gli inglesi. Tuttora, la figura del sovrano gode di prestigio e autorevolezza pur non avendo un ruolo formale e costituzionale. Il XX° secolo ha visto la crescita della consapevolezza d’identità maori. Il progresso industriale e tecnologico ha favorito l’inclusione, ma la volontà di difendere le proprie tradizioni ha sempre messo una cosciente distanza tra la “moderna” Nuova Zelanda e i “tribali” Maori. Non hanno mai avuto timore di affrontare il progresso, ma reputano fondamentale conservare la storica cultura, quindi non hanno problemi a stare ad un passo di distanza dal “moderno”. Nel 1990, a 150 anni dallo storico trattato, il “Tino Rangatiratanga” prende i colori di una bandiera che svolazzerà in rappresentanza di tutto il popolo Maori. Il nero rappresenta la lunga oscurità da cui è emersa la terra; il rosso simboleggia la Madre Terra stessa, sostenitrice di ogni essere vivente; il bianco è armonia, purezza, equilibrio. Il tutto va a formare il simbolo di una fronda di felce arricciata, che è il significato di una nuova vita e della speranza per il futuro.
La lingua e i luoghi
La strada per il futuro è lastricata da pezzi di passato. Un materiale fondamentale è la lingua, tanto che il Te Reo Māori è insegnato in tutte le scuola dell’obbligo neozelandesi, unitamente all’inglese. Piccola curiosità: il toponimo (ovvero il nome proprio di un luogo) più lungo al mondo è proprio in lingua māori. Lo scrivo anche sapendo che nessuno, probabilmente, avrà il cuore di leggerlo.
Tetaumatawhakatangihangakoauaotamateaurehaeaturipukapihimaungahoronukupokaiwhenuaakitanarahu.
La traduzione è: “Il ciglio della collina, dove Tamatea, l’uomo con le grandi ginocchia, che scivolò giù, salì su e ingoiò le montagne, per percorrere queste terre, che è conosciuto come il mangiatore di terre, suonò con il proprio flauto nasale per la sua amata”. Le 92 lettere della pronuncia ha di fatto costituito un Guinnes World Record. Ovviamente, gli abitanti del luogo abbreviano in “Taumata”. Non solo colline con nomi impossibili da ricordare, ma anche monti, campi colorati e scogliere a picco sull’oceano. La magia del paese veste di paesaggi naturalistici tra i più vari, e parla di affascinanti leggende da un capo all’altro delle due isole principali che compongono la Nuova Zelanda. Al punto più a nord-ovest dell’Isola del Nord, Capo Reinga veglia sulla terra e le acque dell’oceano. Per i Maori è un luogo sacro, perché si dice che è qui che le anime fanno tappa prima di raggiungere il regno degli spiriti.
Il sacro e il profano
Discendendo dalla cultura polinesiana, anche l’universo spirituale Maori crede che ogni essere vivente o elemento naturale possieda una forza vitale. Queste energie sono interconnesse tra loro, a formare una fitta rete di sostentamento che li collega anche ad una discendenza comune. A dimostrazione di ciò, ci sono varie personificazioni che risalgono ai tempi medievali: Tangaroa, personificazione dell’oceano e antenato di ogni pesce; Tāne, che rappresenta le foreste ed è origine di ogni uccello; e Rongo, immagine dell’agricoltura e capostipite delle piante coltivate. Di ceppo polinesiano anche i concetti di Tapu (sacro) e Noa (non sacro). L’idea di Tapu è anche di “restrizione spirituale” o “divieto implicito”. Gli oggetti, le aree o gli edifici possono essere Tapu, quindi limitati spiritualmente, e devono perciò essere resi Noa, non limitati, mediante un’azione cerimoniale. Oggi il Tapu rimane d’importanza in questioni relative a malattie, morti e sepolture. All’inizio del Novecento, molti Maori abbracciarono la fede cristiana. Personalità Maori spiccano tra i ranghi della Chiesa di Roma e in quella anglicana, e non mancano conversioni neanche nella Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. La preghiera cristiana è, ad oggi, il modo previsto per iniziare e terminare le riunioni pubbliche Maori. Nonostante rimangano in basse percentuali, i Maori musulmani sono in rapida crescita, dimostrando ancora una volta come questa comunità sia affine al nuovo e alla curiosità dello sconosciuto.
L’arte d’intagliare
Durante i riti religiosi i Maori usavano effettuare celebrazioni tramite l’uso di marionette, egregiamente realizzate dagli artigiani del luogo. L’arte Maori deve molto alla cultura religiosa. Maestri intagliatori, grazie a loro si possono ammirare utensili e abitazioni in legno decorate con molti colori, e solitamente con motivi riconducibili al dio marino, al dio della guerra e il padre degli uomini e degli dei. La scultura è più incentrata su aspetti militari: ne sono esempio i temibili Taihu, teste dall’aspetto feroce che venivano fissate sulle prue delle navi per intimorire i nemici. Il mare e i suoi abitanti sono centrali anche nella storia dell’Hei Matau. Una leggenda narra di un marinaio che alla Baia di Hawke catturò un enorme pesce con il solo uso di un filo e di un amo d’osso. Da questa narrazione deriva L’Hei Matau, che è un osso o una pietra verde ritraente la stilizzazione di un amo da pesca. È usato come amuleto, il quale aspetto ricorda la forma della stessa Baia di Hawke. “Hei” significa propriamente “qualcosa di sospeso al collo”; infatti un altro importante ciondolo della tradizione maori è l’Hei-Tiki. Questo ornamento rappresenta la figura stilizzata di una persona, ed è di pari importanza dell’altro ma è composto dalla giada che proviene dalle coste meridionali neozelandesi. Tiki era il primo uomo creato dal dio Tāne, ma il significato dell’amuleto è ancora oggetto di discussione. C’è chi sostiene che promuova la fertilità, in quanto rappresentazione di un embrione umano; altri rivelano invece che sia un oggetto di collegamento con gli antenati, in quanto l’Hei-Tiki veniva tramandato di generazione in generazione. Che siano Matau o Tiki, gli Hei ora sono simboli di identità nazionale, e grazie alla recente globalizzazione trasportano verso il resto del mondo gli ideali della tradizione Maori. Inutile dire che la commercializzazione ha di per sé anche sminuito i concetti reali che si celano dietro alla simbologia. Ma in terra natia, gli amuleti e i ciondoli sono ancora vera rivelazione della coscienza Maori al pari dei tatuaggi.
Tatuaggi: storia sulla pelle
La definizione precisa per i tradizionali tatuaggi Maori è “Tā moko”. È utilizzato per usare il corpo come libro di storia individuale: ogni segno indica un diverso avvenimento della propria vita personale. Oltre alla funzione di incutere paura agli avversari, è usato per segnalare il rango sociale o più semplicemente per motivi estetici. Ma non si deve sottovalutare il potere culturale. Il fatto che sia una tradizione secolare, la rende molto importante per la popolazione. Tanto fondamentale che addirittura i tatuatori erano considerati Tapu, quindi sacri. Le parti del corpo su cui vengono incisi i simboli sono svariate, anche a seconda del tipo di tatuaggio. Essendo la testa, però, la parte più importante del corpo, il moko più diffuso è proprio quello facciale, caratterizzato da forme circolari e disegni spiraliforme. In generale, ogni moko è personale e non è possibile imbattersi in due tatuaggi simili, anche se possono avere la stessa sfera di competenza. Ad esempio le donne si tatuano il mento ad indicare di essere legate ad un guerriero Maori, ma non è possibile trovare due stessi moko sul mento di due donne diverse. Dagli anni ’90 c’è una rinascita della pratica dei tribali Maori, ed è sorto il problema di appropriazione culturale. Per conciliare la sempre più vasta domanda di tatuaggi Maori, questi hanno promosso l’utilizzo del termine “Kirituhi” che si traduce letteralmente in “pelle disegnata”. Al contrario del moko che richiede un processo di consensi, genealogia e definisce il passaggio all’età adulta di un Maori, il Kirituhi è semplicemente un design d’ascendenza Maori che può essere applicato per qualsiasi motivo a chiunque.
Haka
Gli appassionati di rugby già saranno più informati, ma gli altri magari avranno bisogno di qualche delucidazione sull’Haka, il roboante canto mimato dei Maori. “Ha” è il soffio, e “Ka” significa ‘infiammare’, quindi Haka significa “accendere il respiro”. Già queste semplici tre parole indicano la via per capire meglio tutto ciò che c’è dietro a quello che vediamo di solito fare alla nazionale di rugby neozelandese. Sono proprio i noti All Blacks (soprannominati così per le divise completamente nere) ad aver portato davanti alle telecamere internazionali questa danza. Originariamente nata come invocazione al Dio Sole, si è evoluta nel tempo in un rituale complesso di gioia, dolore e aggressività intimidatoria che però ha tratto in inganno molti. Sottolineiamo subito che non è esclusivamente una danza di guerra, e soprattutto che esistono diversi stili di Haka. Lo studioso Alan Armstrong la descrive con queste parole nel suo libro Maori Games and Haka: «La Haka è una composizione suonata con molti strumenti. Mani, piedi, gambe, corpo, voce, lingua, occhi… tutti giocano la loro parte nel portare insieme a compimento la sfida, il benvenuto, l’esultanza, o il disprezzo contenuti nelle parole. È disciplinata, eppure emozionale. Più di ogni altro aspetto della cultura Māori, questa complessa danza è l’espressione della passione, del vigore e dell’identità etnica. È, al suo meglio, un messaggio dell’anima espresso attraverso le parole e gli atteggiamenti».
L’Haka, quindi, è il sentimento interiore di chi la esegue, in tutti i suoi stupendi significati. Il principale obiettivo è quello di impressionare, ecco perché si spalancano gli occhi, si mostra la lingua e ci si batte il petto violentemente. È un saggio di potenza e coraggio, valori fondamentali dei guerrieri Maori, che viene ancora oggi insegnato praticamente dappertutto in Nuova Zelanda. La carica di chi intona il canto (che riguardo gli All Blacks è un ruolo che spetta al giocatore Maori più anziano, e non al capitano come erroneamente si pensa) viene liberata dai restanti compagni attraverso degli elementi essenziali di ogni Haka. “Pukana” sono gli occhi dilatati, “Whetero” la lingua mostrata in sfida esclusivamente ad altri uomini, “Ngangahu” l’emissione dell’acuto stridulo. In questo modo un Maori si sente tale: libero e unico nella sua collettività, intrecciato tra il passato, il presente e il futuro.
Anche in questo caso, i riflettori del mondo hanno creato tale risonanza da costringere gli All Blacks a mettere in scena una versione modificata dell’Haka, per preservare l’importanza dell’originale. Per non parlare della problematica del copyright: ai Maori infatti non viene riconosciuta nessuna paternità dell’Haka, cosicché i proventi derivanti dai diritti televisivi di tale danza vadano a finire nelle tasche di big del mercato come l’Adidas. La stessa NZRFU (New Zealand Rugby Football Union) ha risposto che non si può stabilire chi ha inventato l’Haka o chi ne fosse il proprietario. Per osservare tutto questo vi rimando ad un video dimostrativo di una danza Haka ad un matrimonio Maori: basta cliccare qui.
“Vogli il volto al sole, e le ombre cadranno alle tue spalle”
Al 2020, i Maori rappresentano il 14% della popolazione neozelandese. Nonostante godano di una discreta rappresentanza al governo, hanno ancora problemi di razzismo istituzionale, che li vede soggetti di sottoccupazione e conseguenzialmente capri espiatori di crimini vandalici. Le statistiche rivelano anche che hanno meno risorse, mediamente, rispetto al resto della popolazione e corrono maggiori rischi economici. Le difficoltà di incastrare la vita globale, degli affari esteri, con la vita della comunità, sono evidenti. Ma non sono ostacoli preoccupanti per un popolo che fermò gli inglesi, portandoli a firmare un trattato di non belligeranza. I Maori hanno le mani salde sulla loro cultura, che insaporisce la loro vita giorno dopo giorno. Hanno gli occhi spalancati, che sia per dimostrare amore o per incutere paura. Hanno scritte sul corpo affinché il passato sia maestro d’insegnamenti. Poi proseguono dritti, petto in fuori, e, per citare un loro proverbio, con il volto rivolto al sole, cosicché le ombre cadano dietro le spalle.
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