I fabbricanti di racchette di neve
L’estremo Nord del mondo è ricoperto di ghiaccio e neve, e il freddo fa padrone con temperature da capogiro. Nonostante la difficile condizione di vita, c’è chi conduce una tranquilla quotidianità anche se calpesta permafrost tutto l’anno. Popolarmente conosciuti come eschimesi, in realtà gli Inuit preferiscono quest’ultima definizione in quanto la parola “eschimese” era usata in antichità in senso dispregiativo, con il significato di «fabbricante di racchette da neve». Nella loro lingua, l’Inuktitut, Inuit significa propriamente “uomini”, e si differiscono dagli Yupik, popolo affine con cui condivide l’estesa tundra delle zone artiche. Geo-politicamente parlando, abitano l’Alaska degli USA, la Groenlandia di competenza danese, i Territori del Nord-Ovest e il Labrador canadesi.
Passato e presente
Delle prime documentazioni ci dicono che circa 6.000 anni fa alcune popolazioni che abitavano il continente americano iniziarono una migrazione verso l’odierna Alaska. Nel 500 d.C. si hanno notizie di civiltà specializzate nella caccia in mare aperto. Il XVI secolo è il periodo in cui i grossi cetacei cominciano ad evitare l’Artide a causa dell’irrigidirsi del clima; gli antenati Inuit sono costretti a cibarsi unicamente di foche, ma hanno la spinta giusta per sviluppare un nuovo metodo di pesca invernale, messo a punto praticando un foro nel ghiaccio. Poco dopo entrano in contatto con i primi europei. La scoperta dello stretto di Bering, nel 1742, dà inizio all’esplorazione dell’Alaska. Come ci insegna ogni libro di storia, il passaggio dei coloni-esploratori europei non è mai ininfluente. Il popolo del ghiaccio finisce per intersecare gli usi delle varie culture straniere con i costumi tradizionali Inuit, cercando sempre di mantenere una propria indipendenza. L’avvento di tecnologie e di prodotti della società industriale favorì l’insediamento del cristianesimo e la creazione di scuole, strade, ospedali e piste d’atterraggio. Così, lentamente, il popolo Inuit ha subito una metamorfosi che ci porta oggi a distinguerne le tradizioni passate da quelle del presente.
Igloo e Igluvigaq
Un primo tratto caratteristico che li contraddistingue è la loro abitazione: l’igloo. Altro errore occidentale è quello di identificare le dimore di ghiaccio con il nome igloo, che invece è la parola inuktitut per indicare una qualsiasi abitazione. Il termine corretto è igluvigaq, ovvero «casa di neve», e presenta la tipica conformazione di una cupola sferica a pianta circolare. I mattoni sono realizzati con neve pressata e montati seguendo una spirale; finita la cupola si scava nella parete il foro d’entrata, generalmente protetto da una piccola volta che serve a proteggere l’apertura dalle raffiche di vento. Un foro minore viene posto in alto che funge da comignolo per quando si accende il fuoco. L’interno è foderato di pelli di renna; materiale usato anche per i rivestimenti del letto che ospita tutta la famiglia. Riscaldamento, illuminazione e cucina vengono prodotti da lampade alimentate con grasso di foca. Essendo un ambiente ristretto, portarlo ad una temperatura adatta è un’operazione veloce anche se all’esterno fanno -40 °C. L’accensione di un fuoco interno, infatti, permette lo scioglimento di un fine strato di neve sulle pareti interne che si trasforma in ghiaccio, che a sua volta rende l’interno dell’ igluvigaq impermeabile al vento. Il rigidissimo clima esterno, invece, permette ai blocchi di neve di non sciogliersi.
Tra Cristianesimo e sciamani
Il duro ambiente artico si riflette anche nelle credenze religiose e nella cultura in generale, che risulta essere timorosa e precauzionale nei confronti della natura. Sebbene il credo predominante sia ormai il Cristianesimo, alcuni Inuit hanno intersecato e adattato la religione cristiana alle loro tradizioni di base sciamaniche e animiste. Animali e fenomeni naturali sono considerati, così, possessori di uno spirito proprio chiamato Anirniq (ovvero «respiro»). In virtù di questo, uccidere un animale non è molto differente dall’uccidere una persona: una volta liberata l’arniniq del morto, che sia animale o umano, essa può prendersi la sua vendetta. La paura di queste potenze invisibili porta l’Inuit a praticare l’obbedienza delle usanze e dei rituali per placare le anime offese. Era compito dell’Angakkuq consigliare e guidare il popolo verso l’obbedienza di tali leggi. Questa sorta di guaritore e psicoterapeuta si occupava delle ferite e dei consigli, così come invocava e scacciava gli spiriti tramite l’uso di tamburi ritmici, danza e canti. A causa della cristianizzazione la funzione dell’Angakkuq è ampiamente scomparsa nell’odierna società Inuit, che però mantiene la figura dello sciamano.
Spesso di sesso femminile, lo sciamano – dunque la sciamana – sarebbe in grado di cadere in trance e contattare la dea-tricheco Sedna, divinità del mare che regola la vita degli Inuit, ferventi pescatori. Viene rappresentata come una bellissima giovane molto vanesia, la cui ira è temuta e ingraziata tramite rituali sciamanici. Tuttora i cacciatori usano versare dell’acqua dolce nella bocca di un mammifero catturato in segno di ringraziamento nei sui confronti; la Dea è solita lanciare fulmini e saette sul mare se si commettono omicidi o si mangia insieme carne e pesce, quindi meglio non farla arrabbiare.
Pibloktoq: l’isteria artica
Gli spiriti maligni possono possedere i corpi dei vivi. Non è l’inizio di un horror, ma la spiegazione “religiosa” ad un fenomeno che ancora oggi è al centro di un avvincente diatriba scientifica.
Si chiama Pibloktoq, o più comunemente definito “isteria artica”, ed è una psicosi che colpisce gli Inuit ormai da secoli. Si rivela più frequentemente nel periodo invernale, e fa muovere le vittime improvvisamente in maniera convulsa, fino addirittura a strapparsi i vestiti e a rotolare nudi sul ghiaccio. Le credenze popolari vedono i casi di Pibloktoq come esperienze mistiche in cui gli spiriti si rivelano agli esseri umani, per questo gli Inuit non intervengono lasciando che l’episodio faccia il suo corso. La scienza, invece, ha dato altre risposte. Alcuni studiosi hanno ipotizzato si tratti di una reazione claustrofobica collegata alla convivenza invernale in ambienti molto piccoli e isolati. A ciò si unisce il problema di un’alimentazione priva di vegetali e basata esclusivamente sul consumo di carne. Questo tipo di dieta e la scarsa luce solare dei periodi freddi determinano un eccesso di Vitamina A e la conseguente comparsa di fenomeni psicotici. La storia di questa isteria è incerta. Esistono delle documentazioni risalenti al 1892 che descrivono il fenomeno e lo pongono antecedentemente al contatto con gli europei. Gli studi degli ultimi decenni hanno invece messo in dubbio la chiarezza di queste prove, additando come principale causa proprio l’incontro coloniale degli esploratori occidentali. Degli studi di antropologia medica e psicologia trovano le cause del Pibloktoq proprio nella reazione scioccante che gli Inuit ebbero di fronte alle inusuali pratiche degli europei, che non si fecero problemi a praticare abusi sessuali e assoggettamenti di vario tipo.
L’autogestione collettiva
Che l’arrivo di sconosciuti bramosi di conquiste abbia apportato danni psico-morali agli Inuit, è comprensibile se si pensa che nella loro società non esistono proprietà private o specifici capi. Sono sempre stati abituati alla solidarietà e all’autogestione: fin da piccoli vengono educati liberi di fare tutto, privi di inibizioni o limiti imposti e senza il concetto di punizione. Per loro l’individuo è il capo di se stesso. Una comunità Inuit è formata da bande indipendenti di nuclei famigliari monogamici, dove le donne e gli uomini vivono reciprocamente dipendenti: l’uomo procaccia l’approvvigionamento e la donna lo trasforma in utile come cibo o vestiti. Ed è proprio la loro abilità nel costruire attrezzi e oggettistica con ogni tipo di materiale naturale che gli permette di abitare uno degli angoli meno vivibili del globo. Si dividono in gruppi per svolgere le principali attività quotidiane, ovvero la caccia e la pesca. Non avendo capigruppo, durante gli sforzi congiunti è il possessore del mezzo usato a fungere da coordinatore delle operazioni, che quindi gode di un buon prestigio sociale all’interno della comunità.
Atanarjuat e la leggenda cinematografica
Al 54° festival di Cannes c’è stata una bella sorpresa. È il 2001, e tra i titoli vincitori ce n’è uno particolare: Atanarjuat il corridore. Porta la firma di Zacharias Kunuk, regista di etnia Inuit che con questa pellicola portò a casa il premio Caméra d’or per la miglior opera prima. Si tratta del primo film di un regista Inuit che narra e descrive il suo popolo, interamente in lingua Inuit. Il film è basato su un’antica leggenda orale che parla di un Inuit che sfugge da un tentativo di omicidio correndo nudo tra la neve, per poi tornare a vendicarsi. Ma la trama è ben più articolata grazie agli intrecci sentimentali di gelosia, vendetta e perdono. Ometto il resto della storia per non rovinare la bellezza di guardare un film a quanti vorranno visionarlo. La pellicola fu ideata soprattutto per consentire ai giovani Inuit di comprendere il passato tradizionale della loro comunità, e per arrivare a tale obiettivo il regista ha beneficiato dell’aiuto di molti anziani Inuit, portatori di questa leggenda. La produzione, in accordo con gli anziani, ha deciso di modificare il reale finale della leggenda rendendolo meno cruento e più edificante, di modo che risulti più adatto come insegnamento alle generazioni moderne. Questo caso cinematografico è stato reso possibile anche grazie al fascino della lingua Inuit, che però allo stesso tempo presenta non poche complicazioni.
L’Inuktitut e il Qaliujaaqpait
Dalle nostre parti si dice che gli Inuit abbiano 99 parole per dire “neve”, ma questo romantico luogo comune è già stato confutato nel 1991 dal linguista Geoffrey K. Pullum nel saggio The Great Eskimo Vocabulary Hoax (trad. La grande bufala del vocabolario eschimese). Lo studioso spiega che i concetti di neve tra i popoli artici, in realtà, sono al massimo due. È proprio la grande varietà dei dialetti dell’artico, le lingue eschimo-aleutine, che fa il resto. È come dire che gli europei hanno centinaia di modi per dire “neve”. Ultimamente comunicare in lingua Inuit è diventato un problema anche per gli stessi parlanti. L’Inuktitut consta di cinque dialetti e di nove sistemi di scrittura differenti, che causano un chiaro svantaggio educativo, il che favorisce sempre più spesso l’uso delll’inglese come principale canale di comunicazione.
L’Inuit Tapiriit Kanatami, gruppo politico-amministrativo di autodeterminazione degli Inuit canadesi, è in prima linea per risolvere questo problema. Per i suoi fautori, darsi da sé una propria lingua è il primo passo per l’autodeterminazione di un popolo, e in questo senso hanno lavorato otto lunghi anni insieme a linguisti e nativi per formare una nuova lingua che entrerà in vigore del tutto tra qualche anno: il Qaliujaaqpait. C’è anche chi rimane a difesa del passato, accettando le complicazioni linguistiche a favore di una lingua tanto complessa quanto affascinante. Un chiaro esempio è l’assiduo utilizzo del “noi” al posto dell’ “io”, derivato dalla mentalità collettivista degli Inuit. Un individuo di fronte alla natura soccombe, e ha bisogno di stare in società per resistere.
Resistere nel ghiaccio
La scorza dura degli Inuit, la loro collettività e le loro usanze, non stanno vivendo un bel periodo storico. Sono tra i primi a risentire dei disastri umani che hanno causato il cambiamento climatico. A ciò si aggiunge i sempre più frequenti mutamenti economico-sociali causati dalla penetrazione della cultura occidentale. Riassumendo, direttamente e indirettamente, l’Occidente raschia sempre di più le risorse naturali di cui le loro terre abbondano. Nonostante siano sorti gruppi e movimenti di difesa e salvaguardia della tradizione Inuit, il resto del mondo sembra come al solito sorvolare sulle problematiche altrui e continua il suo viaggio verso l’autodistruzione.
Il ghiaccio sembra un problema lontano, il freddo ci tocca poco e solamente in inverno, ma non dobbiamo mai scordare che c’è vita e bellezza anche nei punti ciechi. Soprattutto nei punti ciechi.
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_Immagine in evidenza: Famiglia Inuit// credits: groenlandia.it