Nell’era del perfezionismo dei corpi e della performance sociale come metro di giudizio del valore individuale, farsi portavoce della necessità di includere ogni necessità, di abbracciare le diversità fisiche e psichiche di ogni corpo e abbattere le costruzioni sociali e culturali che ci impediscono di allargare i lembi della normalità fino ad includere qualsiasi forma di normalità.
Quella di Pamela De Rosa è una rivoluzione portata avanti in primis con il proprio corpo, quotidianamente, per dare luce e valore alle disabilità invisibili, quella particolare categoria di disabilità che la mancanza di percezione fisica diretta spesso relega ad un livello di stigmatizzazione ancora più profondo.
Cavaliere della Repubblica, attivista dell’Associazione Luca Coscioni, consigliera nazionale dell’APMARR (Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatiche e Rare), l’abbiamo incontrata per discutere di linguaggio inclusivo, file al CUP, abilismo nascosto tra i corridoi dei supermercati, stigma sociale e da dove cominciare per immaginare ‘un mondo più equo e inclusivo per tutte’.

Pamela, per cominciare, domanda banale ma forse non troppo: quali sono le disabilità invisibili? E quali al momento sono quelle più “invisibilizzate” in Italia?
Non è una domanda banale, anche perché la risposta sembra banale ma non lo è. La prima implicherebbe un elenco di patologie che non è elencabile, visto che sono tantissime. La seconda invece, implicherebbe tutto un discorso sull’abilismo che tocca anche il campo della linguistica nel quale non mi voglio avventurare per mancanza di competenza. Due cose però le vorrei dire: la disabilità nel nostro paese comprende un discorso giuridico, cioè è persona con disabilità chi ha ottenuto, a seguito di richiesta e visita INPS, la legge 104 (comma 1 status di persona con disabilità, comma 3, persona con disabilità grave) ma lascia fuori sia quelle persone che non hanno presentato domanda o sono in attesa di risposta, sia persone affette da patologie invalidanti non ancora riconosciute come tali nel nostro paese. Le malattie croniche invisibili, spesso invisibilizzate anche dalle istituzioni, imprigionano le persone in un limbo di incomprensione. Chi ne soffre si trova ad affrontare non solo i sintomi fisici, ma anche pregiudizi sociali che li etichettano come esagerati, pigri o semplicemente “non abbastanza malati”. Questo doppio stigma, che li allontana sia dai “sani” che dai disabili “visibili”, li costringe a lottare per essere riconosciuti come persone a tutto tondo, con le loro capacità e le loro fragilità.
Tu da anni ti batti per un miglioramento concreto dei livelli di inclusività rispetto alle disabilità invisibili, cosa è cambiato in Italia da quando hai cominciato il tuo percorso di attivismo?
Tenderei a dire che non è cambiato molto anche se sarei superficiale nel fornire questa risposta. Vedo che sui social networks ci sono moltissime persone che fanno “awareness” in merito al tema ma nella vita reale vedo davvero poca evoluzione. La differenza arriva sempre dalle persone e dalla loro empatia e gentilezza. Le istituzioni non hanno ancora compreso, ad esempio, che il classico simbolo della persona sulla sedia a rotelle è stato sostituito oramai da anni (con eccezione di Poste Italiane) e quando, come associazione, chiediamo un incontro per chiedere di fare formazione in merito al tema, veniamo rimbalzati o non ascoltati.
Quali sono le maggiori barriere culturali e sociali con cui una persona con disabilità non visibile si scontra oggi in Italia?
Sarò brevissima con un esempio pratico: “montascale fruibile dalle persone in sedia a rotelle” (frase che si trova in molti edifici pubblici). Ehm… no!!! Da sostituire con “montascale fruibile dalle persone con disabilità”, ma anche “montascale fruibile dalle persone con necessità”.

Domanda da bingo: cosa manca culturalmente e politicamente al nostro paese per avere un cambiamento radicale in termini di lotta all’abilismo?
Manca una cultura dell’inclusione radicata e diffusa a tutti i livelli, dalla scuola alle istituzioni, che valorizzi la diversità e sfati i pregiudizi. Serve una politica attiva che vada oltre le leggi formali, investendo in servizi accessibili, formazione degli operatori e sensibilizzazione dell’opinione pubblica. È fondamentale superare una visione assistenzialistica della disabilità, promuovendo invece l’empowerment delle persone con disabilità e il loro pieno coinvolgimento nella vita sociale e lavorativa.
In sintesi: serve un cambio di paradigma culturale e politico che metta al centro la persona con disabilità, riconoscendo i suoi diritti e le sue potenzialità.
Cosa possono fare per migliorare concretamente il contesto abilista in cui viviamo gruppi di attivismo come il nostro? E cosa persone comuni, anche non organizzate in gruppi o associazioni?
Le associazioni possono, secondo me, organizzare campagne informative, eventi, workshop per diffondere consapevolezza sull’abilismo e sulle esperienze delle persone con disabilità. Possono pressare le istituzioni per l’approvazione di leggi e politiche che promuovano l’inclusione e l’accessibilità. Fare rete con altre organizzazioni e associazioni per amplificare la voce delle persone con disabilità. Soprattutto, offrire servizi di supporto e assistenza alle persone con disabilità e alle loro famiglie.
Sulle persone comuni ho difficoltà nel rispondere perché se nessuno crea consapevolezza e sensibilizzazione, non tutte le persone si ritrovano sensibilizzate sull’argomento e anche involontariamente, senza malizia o cattiveria, possono cadere in comportamenti abilisti.
Sono sicura che insieme possiamo creare un mondo più equo e inclusivo per tutte.
Raccontaci una battaglia condotta negli anni che ti ha dato più soddisfazione in termini di cambiamento concreto e, se ti va, anche quella persa che più ti ha buttato giù.
Una battaglia che mi ha portato particolare soddisfazione è stata una cosa che può sembrare banale. L’ospedale San Raffaele di Milano consentiva alle persone con disabilità in sedia a rotelle di accedere alla coda prioritaria per l’accesso al CUP. Dopo numerosi scambi di email e l’intervento del difensore regionale, sono riuscita a far cambiare la procedura, consentendo alle persone con disabilità in generale di ottenere la priorità al CUP.
Più che una battaglia persa, voglio raccontare di una battaglia mai iniziata nel senso che vengo costantemente ignorata: sto cercando di sensibilizzare i supermercati in merito alle disabilità invisibili e all’esistenza del cordino Sunflower. Ebbene: i supermercati non sembrano interessati neppure a ascoltare. Questo mi “butta giù”.
Domanda più personale: quali sono le frasi o gli atteggiamenti che più ti fanno arrabbiare rispetto alla tua disabilità quando ti ritrovi in nuovi contesti?
Onestamente? Quasi nulla mi fa arrabbiare a livello linguistico. Sull’atteggiamento invece ce n’è uno in particolare che mi fa innervosire e cioè quando qualcuno mi toglie l’autonomia. Faccio un esempio: dovevo portare un pacco. C’era la rampa ma il gestore (persona gentilissima, non vorrei essere fraintesa) per evitare di spostare alcune cose che aveva messo sulla rampa mi ha detto “no, tranquilla, vengo io a prendere il pacco”. Passi una volta, ma ogni volta era così in quel posto, costringendomi a chiedere il “favore” al gestore. Quindi ho cambiato centro spedizioni.
«Le persone con disabilità che si sforzano di comportarsi come gli altri sono da ammirare». In una ricerca del 2022 (“Nulla su di noi senza di noi. Una ricerca empirica sull’abilismo in Italia”, Franco Angeli) tre persone intervistate su quattro si è dichiarato d’accordo con questa costatazione. Cosa ne pensi?
Mi viene da sorridere perché io dovrei (uso il condizionale di proposito) comportarmi come mi va di comportarmi (nel rispetto degli altri, ovviamente), senza sforzarmi a fare qualcosa che la società si aspetta da me e questo discorso vale per me con disabilità e per qualsiasi altra persona. L’ammirazione dovrebbe secondo me essere utilizzata per altro, per cose più importanti.
Cosa è significato nel tuo percorso di attivista ricevere il riconoscimento di Cavaliere al Merito nel 2023?
È un onore. Il riconoscimento ufficiale del mio impegno a favore di una causa e questo riconoscimento dà credibilità alla causa stessa. L’ho visto anche come un incentivo a proseguire il mio lavoro con determinazione. Un modo anche per motivare altre persone a impegnarsi per il cambiamento sociale.
Come collettivo culturale, organizziamo il Festival delle Cose Belle. Eventi in natura come il FDCB spesso non si sposano facilmente con un approccio antiabilista. In questo ambito negli anni abbiamo ricevuto un grande aiuto e supporto da Giorgia Meneghesso, attivista per i diritti delle persone con disabilità, che ringraziamo con tutto il cuore. Ciononostante, il festival ha ricevuto numerose critiche per le barriere abiliste che continuano ad attraversarlo. Quale consiglio daresti per garantire livelli di inclusività e accesso maggiore, senza perdere l’anima bucolica?
Una pianificazione attenta, che tenga conto delle diverse esigenze delle persone con disabilità, può rendere un festival come il vostro un’esperienza inclusiva e piacevole per tutti. Con comunicazione chiara, percorsi accessibili, servizi adeguati e attività inclusive che possono trasformare un festival come il vostro un evento aperto a tutti, senza comprometterne l’atmosfera bucolica.
APRMARR (Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare), dove appunto sono volontaria e consigliera nazionale, ha organizzato delle “pratiche di accessibilità” con il progetto “Si può”. Consiglio di vedere il rapporto completo all’indirizzo web https://www.apmarr.it/progetto-si-puo/rapporto-sipuo-pratiche-di-accessibilita/
E non vediamo l’ora di intraprendere questo percorso insieme, Pamela. Grazie!