Quella tra il 27-28 giugno 1969 sembrava essere l’ennesima notte di ordinaria repressione, e invece divenne un momento destinato a cambiare per sempre la storia, non solo delle persone LGBTQ+, ma dei diritti umani e di tutt* noi. Siamo allo Stonewall Inn, l’ormai leggendario locale newyorkese allora punto di ritrovo di omosessuali, lesbiche, drag-queen e persone transgender, un’umanità “differente” e “anormale” secondo il clima politico e culturale di allora, accomunata da una stessa esperienza di quotidiana oppressione e violenza da parte della polizia. Non esisteva ancora un movimento unitario di rappresentazione e rivendicazione gay, queer e trans: la comunità LGBTQ+ era costretta a vivere nell’ombra, senza diritti né dignità, sotto regime di vera e propria segregazione negli spazi pubblici, sottoposta ad ogni forma di sopruso e leggi “di decenza pubblica” che ogni volta fornivano il pretesto e la giustificazione per la brutalità agita dalla polizia, tra controlli, arresti arbitrari, perquisizioni, stupri e pestaggi.
Proibito vendere alcolici a gruppi di tre o più omosessuali. Si può ballare e sostare, ma non vicini. Vietato indossare indumenti del genere opposto e/o non rispecchiante il proprio sesso biologico: sono solo alcuni esempi delle assurde norme a cui i corpi non conformi alla logica etero-patriarcale erano sottoposti. Era frequente, ad esempio, che i poliziotti si lanciassero in approfonditi e morbosi controlli per sincerarsi dei genitali della persona che avevano davanti in quel momento e che, magari, aveva la colpa di indossare più di due o tre capi d’abbigliamento non adeguati al proprio “sesso”.
Quella notte, però, qualcun* decise di dire basta. L’ennesima retata della polizia, con seguenti pestaggi e arresti, fu la miccia che fece esplodere il conflitto. E fu proprio dallo storico locale che partì quella rivolta che oggi conosciamo con il nome dei Moti di Stonewall, una ribellione improvvisa, spontanea, dal basso, che si allargò nei giorni successivi a tutta New York dando il via ad un grande movimento di rivendicazione di diritti umani e civili che arriva fino ai giorni nostri, quando ogni giugno le nostre piazze e strade si popolano dei colori arcobaleno.
Da quella leggendaria notte allo Stonewall Inn, è nato infatti il Pride., che ogni anno festeggia e ricorda l’eredità e le lotte di chi, prima di noi, ha avuto il coraggio di ribellarsi ad un sistema di privilegi, oppressione e violenza. Il primo Pride fu, di fatto, una rivolta contro la polizia, il braccio armato di uno Stato omofobo e transfobico che non tollerava, e continua in alcuni casi a non tollerare, l’esistenza e i diritti di persone definite “diverse”, “mostruose”, non funzionali al nutrimento di quell’antica alleanza tra etero-patriarcato e capitalismo che trova nella celebrazione e consacrazione dell’(unica) famiglia “naturale” il suo fulcro simbolico (e non solo).
Non tutt* sanno, inoltre, che a dare l’inizio ai Moti di Stonewall fu una donna transgender di origini portoricane-venezuelane, Sylvia Rivera: secondo le testimonianze di quella notte, fu proprio lei a scagliare la prima bottiglia contro la polizia, un gesto che innescò i successivi scontri. Così lei stessa racconta: «Nel 1969, la notte di Stonewall, era una serata come altre. Eravamo nel bar Stonewall, quando ad un tratto venne staccata la luce. Smettemmo tutti di ballare ed entrò la polizia. Ci portarono fuori dal bar e ci ammassarono come bestiame nelle camionette. La gente iniziò a tirare monetine agli agenti. Poi arrivarono le prime bottiglie. Ed all’improvviso i poliziotti passarono alla difensiva: avevano paura di noi, stavolta. Non si aspettavano la nostra reazione.Era un punto di non ritorno. Ne avevamo abbastanza. Era giunto il momento di dire basta. […] Per noi la polizia è sempre stata il vero nemico. Pensavamo ci avrebbero trattato come animali. E così fecero. Ci sbatterono in un ufficio minuscolo come fossero dei fenomeni da baracconi. Ci trattarono malissimo. Molti di noi vennero picchiati, molti vennero anche stuprati. Mi mandarono in galera per 90 giorni. Provarono a violentarmi anche lì. Mi difesi a morsi. Ho visto di tutto. Davvero di tutto».
Accanto a quello di Sylvia Rivera, un altro nome riecheggia nella leggenda di quella notte: Marsha P. Johnson, anche lei donna transgender, nera e drag-queen, scomparsa poi in circostanze non ancora chiare. Ironicamente, le due attiviste per i diritti trans dovettero poi scontrarsi con una realtà di discriminazione e stigmatizzazione all’interno dello stesso neo-nato movimento di liberazione omosessuale, proprio quel movimento che avevano contribuito in maniera inequivocabile e radicale a far nascere. Negli anni successivi, furono numerosi i momenti in cui soprattutto Sylvia si scagliò contro l’ipocrisia e i pregiudizi della comunità gay e bianca, ricordando il contributo fondamentale della comunità trans e il pieno diritto di avere voce e rappresentanza all’interno della lotta per ottenere diritti e dignità.
Quando parliamo di Pride, oggi, due punti fondamentali dovremmo dunque ricordarci: il Pride nasce come rivolta contro l’alleanza omolesbobitransfobica tra polizia-Stato e le madri di questa rivolta furono due donne transgender. Nonostante i passi in avanti compiuti in materia di diritti LGBTQ+ e nonostante il Pride sia col tempo diventato un movimento sempre più trasversale ed inclusivo, è importante continuare a raccontare questa storia, a portare sulla pelle e nei cuori l’eredità di queste attiviste e di tutt* coloro che hanno lottato prima di noi, e farlo con la consapevolezza che di passi da fare ne restano ancora tanti, troppi.
Vi lasciamo con un video della testimonianza di Sylvia Rivera su quella notte che cambiò tutto. Per iniziare a conoscere la figura di Marsha P. Johnson, invece, consigliamo il documentario The Death and Life of Marsha P. Johnson (disponibile su Netflix).
Buon Pride a tutt*!