Kwela: gioia e resistenza
La musica è pongo nelle mani del musicista perché può essere qualsiasi cosa l*i voglia. Dallo scopo puramente ludico e spensierato all’obiettivo più socialmente impegnato, la musica è un’arma duttile e volubile come ogni arte che si rispetti. Molto spesso gli aspetti del ludico e dell’impegnato, che parrebbero estremità opposte, possono congiungersi e formano una bipolarità particolare. È il caso del Kwela, novecentesca musica sudafricana ormai simbolo di gioia e di resistenza.
Il Kwela nasce in Sudafrica negli anni ’40 del Novecento, e si distingue subito per i suoi toni freschi e up-tempo che tendono a coinvolgere chi ascolta al pari di chi suona. Per capire di cosa stiamo parlando, però, occorre porre questa tipologia di musica nel giusto contesto storico che la determina.
“Sali su!”
Se nasci in quella parte di mondo alla metà del secolo scorso, la tua vita dipende molto dal colore della tua pelle. Se esci di casa e vuoi sederti su una panchina devi usare il lato apposito che ti appartiene, e allo stesso modo negli autobus e praticamente da ogni altra parte. La divisione tra bianchi e neri è evidente come le strisce disegnate da madre natura sul corpo delle zebre. Se sei bianco poco male, significa in sostanza che appartieni ai privilegiati. Se sei nero il discorso è opposto. È il grigio periodo dell’Apartheid, che per quarant’anni ha significato segregazione razziale per le comunità nere. I ghetti venivano chiamati township, che furono i luoghi di sviluppo della cultura Kwela. È qui che la musica tradizionale locale, il marabi, si fonde con lo swing e il jazz proveniente dagli USA, mescolandosi nel pentolone del bisogno d’espressione. Ne uscì un genere frizzante, saltato e in continuo movimento. Lo stesso termine kwela deriva da khwela, che in lingua zulu significa “salire su” in riferimento all’azione di spingere le persone ad unirsi nelle danze. Quel “salire su” in lingua zulu fu ripreso anche dai poliziotti sudafricani che, impauriti dalla popolarità che stava raggiungendo questa musica, iniziarono a far “salire su” i neri sui furgoni per portarli in commissariato. Il governo aveva capito che il Kwela stava diventando un’arma potente, perché era musica “nera” suonata dai “neri” di tutte le fasce sociali, felici di poter cantare, ballare ed affermare i propri diritti. Visto come un pericoloso elemento di disordine, venne bandita la diffusione di questa nuova forma di riscatto sociale.
Dall’esilio alla libertà
In pratica, durante quegli anni di segregazione i professionisti della musica sudafricana sono costretti a fuggire dal paese, per poter vivere della propria arte. A fronte di questo esilio, la popolazione di colore restò senza musica e dovette inventarsene una. I giovani cercavano vie di riscatto, anche perché le prime forme di politiche organizzate nacquero solo negli anni ’60, e il melting pot che si viene a creare trova sfogo proprio nel Kwela. La musica rompe ogni muro o barriera che le si pone, e in poco tempo la Kwela fa tappa in Zimbabwe, Zambia e Malawi.
Nel 1958 il pezzo di “Elias and his Zig Zag Jive Flutes” intitolato Tom Hark varcò i confini nazionali per divenire un successo planetario, in seguito bissato dalla cover prodotta dai The Piranhas. Il mixture jazz-musica tradizionale ci fa capire che stiamo parlando di uno stile musicale di re-incontro, tra la musica africana che ha continuato a suonare in Africa e quella che ha continuato a suonare negli States. Il bisogno di libertà espresso prende forma da un ritorno alle origini, quindi, tramite un percorso inverso rispetto a quello compiuto durante la schiavitù.
Tin Whistle: Il fischietto povero
Il sound è inevitabilmente condizionato dalle condizioni di vita dei musicisti. Se si vive nella township è difficile permettersi una tromba o un sassofono, così lo strumento d’elezione diventa un “fischietto” che un musicista può addirittura costruirsi da sé. Il Tin Whistle è la guida di ogni Kwela che si rispetti. Chiamato anche ‘Pennywhistle’, ossia ‘”fischietto da un penny”, è un piccolo ed economico flauto di latta o di legno a sei fori, molto popolare anche nelle musiche locali britanniche. Il nome è un chiaro riferimento al materiale di cui erano composti i primi modelli, la latta, che oggi in tempi moderni può essere anche sostituita da altro.
Ma la sua umile origine è anche il suo maggior punto di forza. Inizialmente, infatti, era considerato un giocattolo per bambini e veniva usato dai ragazzi di strada per racimolare qualche spicciolo ai passanti, ma col tempo si è ben compreso la sua potenza. Il Tin Whistle ha dimensioni ridotte, una straordinaria facilità d’emissione ed è di veloce apprendimento. Lo strumento perfetto per il momentum storico-politico di quei tanti giovani irrequieti che hanno bisogno di qualcosa per suonare e cantare. I virtuosismi che concede questo flauto, che vanta tra l’altro un utilizzo da parte dei Beatles (nella canzone The fool on the hill) e un ruolo fondamentale nella creazione della colonna sonora de Il Signore degli Anelli, vanno poi ad intrecciarsi con le note di contrabbasso, i ritmi delle percussioni e l’arpeggio di chitarra. Il risultato è sulla bocca e nelle orecchie di tutti.
“Khwela Khwela”
L’esempio che vi porto è il brano Khwela Khwela, uno dei più conosciuti e ballati. Adattato dai vari artisti Kwela, è stato terreno di vari riadattamenti e coreografie, anche grazie alla sua straordinaria maneggevolezza. La vocalità della (o del) cantante, che spazia in arie leggere e spensierate, è sorretta dal basso, le percussioni e i fiati blues: vestiti puliti e ordinati al servizio di una traccia che, più che invitare a danzare, tira proprio il bacino e se lo porta dietro. Nel link, il tutto è condito con la coreografia di una scolaresca, la cui visione fa bene al cuore e all’anima. Per il video, clicca qui.
La vittoria più grande
Al giorno d’oggi può suonare come un genere di musica “passato” sotto il punto di vista discografico, ma l’orecchio ha altri padroni. Il Kwela non ne ha più da un pezzo, di padroni, e già appena nata sapeva di essere destinata in alto, e non al commercio musicale. Ha accompagnato generazioni di sudafricani con passi di danza, verso la vittoria su quel cancro che era l’Apartheid. Saltando e cantando, il Kwela era uno scudo, un pugno alzato di protesta, un sorriso ed un discorso di Mandela. Perché, si sa, che se le parole non ti bastano, tu inizia a suonare. Magari non basterà neanche quello, ma di sicuro qualcuno ha iniziato a ballare accanto a te.
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Immagine in evidenza:
Copertina dell’album di Spokes Mashiyane// credits: electricjive.blogspot.com