Quando è scoppiata la guerra non è partito subito.
Lavorava come receptionist in un hotel di lusso nel centro di Dar’a, nota località turistica a un’ora da Damasco, e l’idea di abbandonare ogni cosa per un futuro senza certezze lo spaventava.
E poi c’era la famiglia. Un intreccio di legami e relazioni profonde che si allarga fino a parenti lontani e che nella cultura siriana diventa parte della stessa casa – una gettata di terra su cui piantare le radici di quello che viene, qualsiasi questo sia.
Dalla morte del papà qualche anno prima, questo intreccio si è allargato e stretto ancora di più.
Quando i bombardamenti sono diventati più frequenti e il rischio delle esplosioni dentro casa una routine quotidiana, le due sorelle, la madre e un fratello hanno però deciso di lasciare tutto e superare di notte il confine con la Giordania. Un fagotto con qualche vestito in spalla e un paio di collanine d’oro intarsiato in tasca come valigie.
Lui no, è rimasto a casa con un altro fratello più piccolo, stretti nella speranza che Allah possa ridare pace a una terra che ne aveva perso completamente la cognizione.
Passano le settimane e l’hotel vuoto diventa rifugio durante gli attacchi aerei o le sventagliate di mortaio di qualche carro armato di passaggio.
A due anni dall’inizio della guerra in Siria, Mahmoud ha dovuto guardare in faccia la realtà.
La casa spoglia, le strade sventrate dalle esplosioni, il bancone della receptionist ricoperto di buchi di pallottole. La terra su cui aveva impastato una vita intera si era fatta pesante e irriconoscibile. Quando non c’era il rombo piatto degli elicotteri, ci pensava la paura o la fame a gelare il silenzio.
Così nel 2013 decide di scappare anche lui con il fratello minore. Di notte, come il resto della famiglia, per evitare di cadere sotto il tiro dei soldati nascosti tra i sacchi di sabbia nei punti di avvistamento.
Supera la frontiera e in Giordania diventa uno delle migliaia di rifugiati siriani radunati nei campi del confine, il tesserino dell’UNHCR in tasca per avere almeno un pasto garantito di giorno e un materasso a terra in una tenda con altri otto uomini per riposare la notte.
La mamma e il resto della famiglia è ora a Karak, nel sud del paese, ospite di un lontano parente. Nel Medio Oriente è così, nella buona e nella cattiva sorte i legami di famiglia diventano rifugio e il salotto di trasforma in camera da letto per chiunque ne abbia bisogno.
Mahmoud e il fratello vanno a Karak, le quattro mura della camera condivise con il resto della famiglia, i pasti di riso bianco con una patata bollita come condimento per lasciare che i risparmi bastino almeno fino a quando Allah vorrà dare un lavoro decente a qualcuno in casa.
Purtroppo il lavoro non arriva.
Nonostante l’accoglienza iniziale del popolo giordano, la legge non permette ai rifugiati di svolgere tante mansioni aperte alla popolazione locale. Dove non è la legge, ci pensa il tacito stigma delle tribù del sud, che di fronte al pericolo di vedere il mercato del lavoro saturare per la crescita di domanda preferiscono chiudere le porta ai tanti giovani di valore provenienti dallo stato confinante.
Seguono mesi di sconforto ed espedienti, tra lavoretti da commesso nel negozio dello zio e aiutante artigiano nel mercato di pelli vicino casa.
Dopo qualche tempo a Karak apre le attività una organizzazione italiana che offre servizi sociali a persone siriane. Cerca professionisti che sappiano mobilitare le comunità siriane e possano gestire le campagne di sensibilizzazione.
Nonostante la poca esperienza, Mahmoud decide di fare domanda. La parlantina allenata negli anni da receptionist e l’arte dell’arrangiarsi raffinata negli ultimi mesi gli permettono di superare i colloqui ed ottenere la posizione.
Da siriano, si ritrova a visitare i centri sociali, scuole, piazze e mercati dove i propri connazionali si incontrano, per organizzare sessioni di sensibilizzazione sulla parità di genere, sulla lotta al lavoro minorile, sugli strumenti sociali a disposizione dei rifugiati per garantire il sostentamento alle proprie famiglie.
È bravo, parla lo stesso accento delle donne e adolescenti a cui si rivolge, alcune lo conoscono e si fidano di lui.
L’anno successivo viene promosso ad assistente sociale, dopo un paio di anni è responsabile di tutto il team dedicato alla protezione dei rifugiati a Karak.
Oggi, a dieci anni dal suo arrivo in Giordania, Mahmoud è coordinatore di progetto con Intersos per l’intera regione meridionale del paese.
In tasca ha ancora la tessera dell’UNHCR che dichiara il suo status di rifugiato e al posto della tenda ora vive in una casa in affitto con la madre e le sorelle e garantisce una vita dignitosa ad ognuna.
Da quando i ribelli hanno preso Damasco è più felice del solito, dopo anni di buio e incertezze intravede un barlume di speranza e la possibilità che la terra dannata e benedetta lasciata andare dieci anni fa torni ad essere impasto delle proprie giornate.
Nonostante la speranza appena accesa, sa bene quanto la situazione sia complessa e scostante in questo momento. Quando tutto il mondo intorno grida alla conquista della libertà, lui aspetta con tacita pazienza che la situazione si chiarisca, nel cuore il sogno proibito di tornare ad abbracciare vicini e famiglia allargata rimasti al di là del confine.
Nella storia di Mahmoud, nella sua felicità composta e complessa, nel suo riscatto da un destino imposto, c’è il racconto di migliaia di persone costrette ad abbandonare una casa amata visceralmente per arrangiare il futuro che capita dove possibile.
Il suo futuro lo ha portato ad essere punto di riferimento e sostegno per la sua gente. E oggi forse gli darà la felicità insperata di tornare ad essere figlio della propria terra.
Una terra santa e dannata come il destino dell’umanità che la continua a vivere anche da lontano, e ora vede avvicinarsi il sogno di ritrovarla sotto ai piedi.