A quattro anni dal Memorandum d’intesa Italia-Libia e dopo le ultime dichiarazioni di Mario Draghi, è necessario ricordare come gli accordi di cooperazione bilaterali per la gestione dei flussi migratori stipulati tra i due Paesi rappresentino un vero e proprio atto di «complicità in crimini di diritto internazionale», come scrive in un comunicato Amnesty International. L’esaltazione compiaciuta del patto, con tanto di confusione volontaria tra soccorso umanitario e respingimenti illegali, appare come l’ennesimo tentativo di deresponsabilizzazione delle politiche italiane ed europee in materia migratoria. Da anni organizzazioni non governative, associazioni e attivisti denunciano le gravi violazioni di diritti umani che subiscono i migranti respinti in Libia e deportati nei centri di detenzione, sia governativi che clandestini. Numerosi report hanno dimostrato una situazione drammatica, tra arresti arbitrari, torture, privazioni, rapimenti e anche violenze sessuali a cui uomini, donne e bambini vengono sottoposti, il tutto con la complicità delle istituzioni italiane.
Come scrive Sea Watch Italy dal suo account Twitter, «Se si considera la Libia un partner affidabile non c’è spazio per i diritti umani». Già a luglio 2017, un rapporto di Oxfam, MEDU (Medici per i Diritti Umani) e Borderline Sicilia denunciava le brutalità di cui erano vittime ogni giorno i migranti in Libia, tra milizie locali, trafficanti e bande criminali. Le testimonianze raccolte in questo documento sono agghiaccianti: l’84% delle persone intervistate ha dichiarato di aver subito violenze e torture, il 74% di aver assistito all’omicidio o alla tortura di un compagno di viaggio, l’80% di aver subito privazione di acqua e cibo e il 70% di essere stato imprigionato in centri di detenzione governativi o illegali [fonte: da MeltingPot.org, che riassume i dati del report, disponibile qui].
Altra importante documentazione è offerta dai rapporti del segretario generale delle Nazioni Unite, in cui si segue lo sviluppo delle condizioni politiche, economiche e relative alla sicurezza in Libia. L’ultimo è stato depositato il 19 gennaio 2021, come aggiornamento del precedente report. Nel documento si legge che migranti e rifugiati continuano ad essere soggetti a prigionia e tortura sistematica e arbitraria perpetuata in luoghi di detenzione, governativi e non. Frequenti le violenze sessuali, sequestri, riscatti, estorsione, lavori forzati e omicidi. I responsabili sono ufficiali, gruppi armati, trafficanti di esseri umani, gruppi criminali. In particolare, l’UNSMIL (United Nation Support Mission in Libia) ha ricevuto segnalazioni provenienti dai centri di detenzione di Suq al-Khamis, Abu Salim, Nasir e Abu Isa, gestiti dal Direttorato per la Lotta alla Migrazione Illegale. Si hanno notizie di uomini e ragazzi uccisi o picchiati dalle guardie nel tentativo di convincere le famiglie a pagare un riscatto. Alcuni detenuti sono stati sparati mentre tentavano di fuggire.
Il 28 settembre 2020, denuncia il report, circa 355 migranti e richiedenti asilo, di cui 258 uomini, 57 donne e 40 bambini, sono stati arrestati dalle forze dell’ordine presso le loro abitazioni, luoghi di lavoro o altre strutture nello Ujaylat e nei dintorni di Sabratah, controllati dal Direttorato per la Lotta alla Migrazione Illegale e dal Direttorato per la Sicurezza sotto il Ministero della Difesa. Durante questi arresti, hanno sparato a due uomini, di cui non si conosce l’età e che sono rimasti gravemente feriti, mentre due donne sono state violentate. L’1 ottobre 2020 tre migranti sono stati uccisi da uomini armati presso il punto di raccolta di Dahamn, durante una protesta per le privazioni di cibo e acqua potabile e la mancanza di cure mediche. Sono arrivate inoltre continue segnalazioni di deportazioni in larga scala eseguite dagli ufficiali governativi lungo il confine meridionale con Ciad e Sudan, sotto le cosiddette “procedure di emergenza”, e questo ha innalzato le preoccupazioni di espulsioni collettive e possibili casi di respingimento, mentre il centro di detenzione di Kufrah è divenuto di fatto un centro di deportazione.
Nell’intervallo di tempo monitorato dal report, il numero di individui trattenuti nei centri di detenzione per migranti è aumentato, a causa di una maggior attività di intercettazione e interventi in mare da parte delle autorità libiche e per la chiusura delle rotte marittime ai migranti e rifugiati attraverso le intercettazioni via terra, che hanno impedito dunque le partenze. Nel 2020, più di 11.900 migranti e rifugiati sono stati intercettati via mare, fatti sbarcare in Libia e trasferiti arbitrariamente nei centri di detenzione in condizioni disumane, mentre di altri si è persa del tutto traccia. Questi numeri rappresentano un incremento, se comparati con le 9.200 intercettazioni nel 2019. Nel momento in cui il report è stato diffuso, erano più di 2.300 le persone detenute in otto centri governativi in Libia, di cui 695 persone considerate a rischio per l’UNHCR.
Per quanto riguarda la violenza su donne e bambini, l’UNSMIL ha ricevuto numerose segnalazioni di violenza sessuale, tortura, maltrattamento e altre forme di abusi sessuali perpetrate da ufficiali e guardie. Circa 69 bambini rimangono prigionieri insieme alle loro madri nella prigione Judaydah. Per le donne la detenzione in questi centri è un vero e proprio inferno, anche a causa dell’assenza totale o scarsissima presenza di guardie femminili. Tuttavia, dati più accurati riguardo la violenza di genere subita dalle donne migranti non sono facilmente disponibili, a causa della paura delle vittime di ricevere intimidazioni e ripercussioni. Per tutte le ragioni fin qui illustrate, nelle raccomandazioni finali il segretario delle Nazioni Unite ribadisce come la Libia non può assolutamente essere considerata un porto di arrivo sicuro per rifugiati e migranti e sollecita gli Stati Membri a rivedere le politiche che alimentano l’intercettazione in mare e la deportazione dei migranti sul suolo libico. Il report per intero è disponibile qui.
Già nel 2012 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva condannato l’Italia per i respingimenti in mare verso la Libia, a seguito dell’accordo bilaterale stipulato nel 2008 con il regime di Gheddafi. Oggi la Libia è indagata dalla Corte dell’Aja per crimini contro l’umanità. Nonostante ciò, le forze politiche che si sono susseguite al governo nulla hanno fatto per rimediare a questa grave situazione e ad un increscioso accordo che non è stato rivisto né toccato nella sostanza. Davanti alla palese e ben documentata violazione dei diritti umani in Libia, è preoccupante constatare come Unione Europea e Italia abbiano continuato a portare avanti politiche volte al rafforzamento dei controlli lungo le coste libiche e alla stipulazione di accordi e finanziamenti ai Paesi di transito, senza preoccuparsi delle situazioni interne in materia di diritti umani e sicurezza; senza pretendere il rispetto di standard non negoziabili per la tutela di uomini, donne e bambini.
Esternalizzazione delle frontiere, aumento di controlli e rimpatri, sostegni e finanziamenti: si delinea così il progetto di chiusura della rotta mediterranea, senza che vengano però predisposti meccanismi sicuri di ingresso in Italia ed Europa. Risultato? Situazioni di stallo tra frontiere e confini, aumento della profilazione razziale nelle zone di frontiera con conseguente criminalizzazione, centri di deportazione e detenzione, campi migranti e profughi dove si vive in condizioni disumane. Non solo in Libia, ma anche nel cuore stesso dell’Europa, come ci indicano le testimonianze provenienti dalla rotta balcanica. Veri e propri inferni in cui esseri umani già provati da fame, guerre e privazioni restano bloccati per mesi e sottoposti alle più gravi violazioni dei diritti fondamentali, nel silenzio colpevole e complice dell’Italia e dell’Europa.
Ed è per questo che, nell’anniversario della firma del Memorandum Italia-Libia, ASGI, Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Oxfam e Sea-Watch hanno lanciato un appello al Parlamento italiano, per chiedere un’immediata revoca degli accordi con le autorità libiche e il ripristino delle attività di Ricerca e Soccorso nel Mediterraneo centrale. Come denunciano, sono stati oltre 785 i milioni spesi dall’Italia per sostenere un accordo che, senza fermare le morti in mare, ha consentito il respingimento in Libia di 50 mila persone, di cui 12 mila solo nel 2020. Dal 2017, secondo i dati dell’IOM, quasi 6.500 persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo centrale. Nello stesso tempo tutti i governi succeduti nel nostro Paese hanno ostacolato l’attività delle navi umanitarie, fino ad arrivare ad una vera e propria criminalizzazione dei soccorsi in mare, principio introdotto dal Decreto Sicurezza Bis e rimasto immutato nella sostanza.
Appare perciò urgente che l’Italia inizi a prendersi le proprie responsabilità, rivedendo l’accordo libico come promesso più volte, dando un segnale concreto di discontinuità, anche «mediante la creazione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle conseguenze della cooperazione con la Libia in materia di controllo delle migrazioni e l’adozione di un piano per l’evacuazione dalla Libia di migliaia di rifugiati attraverso i canali umanitari», come suggerito in un comunicato di Amnesty. Certo è che il tempo di compiacersi e girarsi dall’altra parte è scaduto. E da un pezzo.
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[Immagine in evidenza: da Nigrizia.it]
Le parole di #Draghi, che confonde respingimenti illegali con soccorsi e che elogia l'attività della cosiddetta guardia costiera libica, si inseriscono nella continuità con i governi precedenti. Se si considera la Libia un partner affidabile non c'è spazio per i diritti umani.
— Sea-Watch Italy (@SeaWatchItaly) April 6, 2021