La Bolivia è una terra incredibilmente bella e selvaggia che sembra scontare il prezzo della propria avvenenza stretta nel gioco di una duplice identità. Da un lato, il sentimento popolare che la lega a qualche secolo di storia tribale, dall’altro la spinta consumistica a rincorrere il passo della modernità. Una forbice aguzza che ne taglia l’anima in due creando disorientamento e paura. In questo limbo si srotola la valle fertile in cui prendono corpo i totem delle certezze, simulacri di parole e promesse che rinfrancano i cuori deboli del popolino. Evo Morales Ayma non è solo il presidente che da più di 14 anni tira le fila del paese. Evo Morales è la rappresentazione vivente di una esigenza antica di identità, certezza, immedesimazione. Stiracchiati dalla spinta di voci contrastanti, i boliviani si scoprono stanchi e incerti, lontani un po’ da tutto come una barchetta di noce sballottata dalla marea.
La tradizione dei padri è una sorgente arrugginita da cui attingere acqua stantia; la rivoluzione digitale è un sogno sbiadito lontano da venire. “El Evo” s’impone al presente come l’uomo che sa unire questi due mondi, la figura carismatica che offre sicurezze in cambio di una placida ammirazione, l’emblema della risolutezza, la sintesi di una identità perduta. Ex sindacalista del movimento cocalero, indigeno di cultura aymara, Evo ha sfruttato abilmente il malcontento anti-americano generato dal presidente Sanchez de Lozada “Goni” ricostruendo un muro di sicurezze dietro la propria figura di nativo indipendentista aperto alle influenze della contemporaneità. Ha preso parola davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite sventolando una foglia di coca, simbolo dello spirito ancestrale del paese, ed ha inaugurato il primo sistema di trasporto teleferico di La Paz; ha imposto lo studio delle lingue native aymara e quechua nelle scuole, e sta lottando politicamente per la costruzione dell’idrovia Paraguay-Paranà che garantirebbe alla nazione andina un accesso al mare sull’Atlantico; si presenta in pubblico rigorosamente con la felpa di alpaca, scendendo da un elicottero in stile hollywoodiano.
Ai più potrebbe apparire come un concentrato variegato di contraddizioni in termini, un sunto post-moderno della fluidità politica. Qui no, qui Evo è l’uomo capace di qualcosa che nessun altro prima di lui era riuscito a fare: riannodare una società sbrindellata. O almeno questo è quello che dà a credere, quello che la maggioranza vede nelle maglie della comunicazione governativa. Ed è un miraggio stupendo. Pensateci. La soluzione allo sfilacciamento di un corpo sociale non è né in un verso né in un altro, non c’è bisogno di lasciare indietro nessuno, possono stare tranquille tanto le anziane cholitas dell’altipiano quanto i giovani nativi digitali di Santa Cruz. La soluzione è al centro, è l’equilibrio tra questi mondi apparentemente opposti, è un filo argentato che ne lega gli estremi. A tenere i capi di questo filo, lui, l’uomo di tutti, l’indio che guarda al futuro, “El Evo”.
Ma è davvero così? Evo Morales Ayma è davvero colui che riesce a dare equilibrio alle spinte contrapposte di una società così sbrindellata come quella boliviana? È realmente la panacea per un male strutturale che fino a qualche hanno fa sembrava preannunciare la guerra civile?
A guardare le info-grafiche non sembrerebbe. La Bolivia è 95esima nella classifica dei paesi per PIL nazionale [1] e 124esima per PIL pro-capite [2], con un 20% della popolazione che vive al di sotto della soglia della povertà. È il paese più povero del Sud America, in termini di PIL pro capite, dopo la Guyana e il Paraguay, con un reddito medio annuo che si aggira sui $ 7,200 [3]. Il Fondo Monetario Internazionale la definisce nel rapporto del 2016 una economia debole [4]. Eppure agli occhi dei cittadini questi numeri non esistono, sono fantascienza buona per dare parole a libri e almanacchi. Esiste una realtà soffocata tanto evidente da restare nascosta agli occhi dei più. Un fenomeno che si riconosce subito scambiando quattro chiacchiere per strada, come al solito il termometro più affidabile per misurare il livello di consapevolezza popolare.
L’altro giorno parlavo con Raùl, autista di minibus, qui a La Paz il trasporto su ruote più economico ed utilizzato, il quale mi raccontava con gli occhi scuri d’orgoglio come Evo avesse davvero cambiato la vita dei boliviani in meglio. Di grazia Raùl, come? Costruendo campi da calcio, strade, scuole, ospedali. Ah, funzionanti immagino, intendo, campi da calcio con istruttori per bambini, strade sicure, scuole con insegnanti qualificati, ospedali accessibili a tutti? No, non proprio, ma non è questo il punto. “El Evo cumple”, questo è il punto. Evo costruisce, spinge con la sola forza delle sue promesse mantenute le ruote arrugginite del progresso nazionale, poi se dietro queste ruote le impronte sbiadiscono presto alla luce del sole sudamericano non lo si può di certo incolpare. È il sistema che non va, una storia antica di amministrazioni corrotte che ha riempito gli scaffali della cosa pubblica di cimeli impolverati dei quali non è facile liberarsi. Corruzione, inefficienza, nepotismo, servilismo verso lobby economiche straniere. I mali della Bolivia sono antichi come le sue montagne e nulla di tutto questo può addebitarsi al presidente per il semplice fatto che lui non c’entra. Lui “cumple”, se poi ci sono cose che non seguono la sua visione avveniristica è certamente colpa del fardello che si porta appresso, un fardello incollato alla terra che non può essere sradicato in quattordici anni di governo.
Eccolo, il miracolo della propaganda. L’apoteosi dell’annebbiamento delle masse. Una mistificazione popolare che se non fosse atroce nelle sue conseguenze andrebbe studiata nei migliori corsi di scienza politica. Evo Morales Ayma è riuscito a polarizzare l’attenzione del popolino vendendo l’immagine del politico nato dal nulla che non tradisce la propria origine rurale. Attraverso una comunicazione spietata e dirompente che a reti unificate racconta la figura di un paese surreale, grottescamente fittizio, ha compiuto l’atto più radicale del proprio operato: lasciarsi intendere come unico portavoce e paladino del benessere delle masse, degli ultimi. Poco importa che abbia infranto la costituzione, prolungato il proprio mandato oltre i termini consentiti nonostante il voto referendario sfavorevole, che con la sua politica di deregolamentazione dello sfruttamento terriero stia condannando l’Amazzonia alle fiamme. La sua è una dittatura profumata, dolce, aromatizzata da un sapore rivoluzionario post-socialista a cui il popolino spaurito non riesce a resistere.
Sono i fuochi fatui delle opere pubbliche, delle cattedrali di cemento, delle parole urlate con il pugno serrato a dare ai più l’impressione di vivere nel mezzo di una transumanza verso il progresso sociale, l’inclusione, la crescita economica. Non conta che i numeri freddi dicano l’opposto. È il rollio lento e piacevole della consapevolezza narcotizzata a suggerire che il giusto sia nelle parole del presidente in carica. In fondo, è tutto più facile così. Mettere in discussione il suo operato significherebbe aprire la stagione di un dibattito politico a più voci, mediare tra linee contrapposte, disegnare un orizzonte che non esiste. Con Evo invece tutto questo non serve, basta avere fiducia nella sua proposta, basta credere ai proclami della radio, basta leggere nei campetti da calcio freschi di vernice il simbolo di un paese che guarda al futuro. Così è tutto più facile, tutto è più gradevole.
Il 20 ottobre la Bolivia andrà alle urne. Potrà scegliere se rinnovare il mandato per la quarta volta ad Evo Morales o aprire una stagione politica completamente nuova. Nella chiacchierata con Raùl, l’autista di minibus, ho letto l’immagine di una volontà annegata nella semplicità fittizia dell’apparenza. La resa della ragione. L’illusione di un uomo capace di riscattare la storia di una intera nazione offre a poco prezzo una pace rassicurante, piatta, indisturbata.
Perché rovinarla con una secchiata d’acqua gelida? In fondo, “Evo cumple”. In fondo, ora ci sono campetti da calcio nuovi di zecca in ogni quartiere. In fondo, le dittature sono belle.