Quando ero piccola non sapevo dire le bugie.
Se dicevo alla mia maestra della scuola materna che andavo in bagno a lavarmi le mani ma poi, una volta lì, decidevo di fare anche la pipì, quando tornavo le dovevo dire la verità. Non riuscivo a sopportare l’idea che lei pensasse che io mi ero solo lavata le mani quando, in realtà, avevo fatto anche la pipì. Il solo pensiero mi era intollerabile.
(Questo fatto di non accettare che qualcuno possa pensare un fatto che non è vero mi angoscia da sempre. Se c’è una cosa che io non riesco a sopportare in un libro o in un film, infatti, è la presenza di malintesi. Se è davvero terribile inizio a urlare contro lo schermo e contro la pagina per protestare, e in casi davvero estremi sono arrivata ad andare a sbirciare nelle pagine successive per trovare subito la fine del malinteso).
Era per me inconcepibile pensare di dire una bugia e far credere a qualcuno una cosa non vera. Mi sarei sentita troppo male, i sensi di colpa mi avrebbero divorato. O, più semplicemente, non avrei resistito alla tentazione di dire come stavano le cose veramente. Da questo si capisce che tutte le mie bugie erano destinate al fallimento.
Lo sono ancora, in realtà, perché non ho mai imparato a dirle davvero.
L’unica bugia che sono riuscita a portare avanti con costanza e dedizione per un tempo considerevole è stata quella che raccontavo a mia madre sull’andare in motorino quando ero al liceo.
Non stupisce che mia madre, persona piena di ansie, avesse una totale avversione per il motorino che, nella sua testa, mi avrebbe portato inevitabilmente alla morte. Non avevo mai provato a convincerla a comprarmene uno, perché sapevo che si trattava di una partita persa in partenza e, forse, anche perché non ne avevo troppa voglia.
Ma mia madre non aveva potuto impedire alle persone che mi circondavano di avere un motorino. Tra queste spiccava la figura della mia amica Irene, con cui da sempre facevo il tragitto per andare a scuola e che, a un certo punto, era entrata in possesso di un motorino, sul quale avrebbe voluto portare anche me.
Ma anche questo, per mia madre, equivaleva alla morte. Era pericoloso andare in due in motorino, anzi, era pericolosissimo. Era consentito soltanto in casi estremi, per esempio se qualche compagno di classe mi riaccompagnava a casa il sabato sera, uno di quei sabati sera che mi sforzavo di sopportare. Affinché questo passaggio non si traducesse nella mia morte, mia madre mi aveva portato a comprare un casco della mia taglia dopo che, una sera, ero tornata a casa con un casco integrale immenso che mi era stato prestato. Ero quindi dotata del mio casco, ma dovevo fare a meno di usarlo.
Io, però, ero riuscita ad aggirare questo divieto e ogni mattina nascondevo il casco fuori di casa. Aprivo la porta piano piano per non farmi sentire, cosa abbastanza semplice perché a quell’ora la casa pullulava di rumori, mettevo il casco sul pianerottolo e poi riaccostavo la porta o la chiudevo del tutto. Solo a quel punto, già vestita e con lo zaino sulle spalle, salutavo. Se mia madre si fosse affacciata da una stanza non avrebbe notato nulla di strano, e prima che potesse decidere di venire fino a lì a salutarmi, io mi slanciavo per le scale.
Non so per quale motivo riuscissi a dire questa bugia, forse perché non dovevo, in realtà, dirla davvero, ma limitarmi a nascondere il casco fuori dalla porta. E forse anche perché ero convinta dell’inutilità e della mancanza di coerenza nel sistema perpetuato da mia madre e, quindi, contrastarlo non mi generava sensi di colpa.
Perché il punto era proprio lì, nel terribile senso di colpa. E, in misura minore, nel pronunciare parole false.
Quando recitavo, a volte capitava che qualcuno mi dicesse, a proposito della mia incapacità a dire le bugie: “Ma come, sei un’attrice, come fai a non saper dire le bugie? Basta recitare!”, e invece no, che non basta recitare.
Quando si recita è tutto finto, ma lo sanno tutti. E recitando, in realtà, si cerca di farlo diventare vero. Se si è bravi, lo diventa davvero e si crede a quella bugia. Non si sta ingannando nessuno e non bisogna poi sorbirsi le conseguenze delle proprie bugie.
A un certo punto, però, ho scoperto una cosa.
Un giorno ho detto a qualcuno una bugia. A qualcuno di semi conosciuto, credo, non proprio una persona amica. Non ho detto proprio una vera bugia, ma una mezza bugia, ovvero una verità un po’ modificata.
Non ricordo altri dettagli ma ricordo che mi è piaciuto tantissimo.
L’ho trovato liberatorio, leggero, affascinante. Dicendo una bugia avevo creato una nuova realtà. E la cosa più bella era che avevo anche iniziato a crederci, a quella realtà. In un attimo, mi si sono spalancate davanti delle nuove frontiere inesplorate.
Adesso continuo a non raccontare bugie, ma perché ho paura di non riuscire a fermarmi.