Dall’inizio del lockdown dovuto all’emergenza sanitaria attualmente in corso, un leitmotiv continua ad affacciarsi nelle nostre giornate: questo è un tempo drammatico, pieno di paure e incertezze, un tempo che ci sfida e chiama in causa i più alti valori di responsabilità civile e democratica, sì, ma anche un’occasione per riconsiderare i modelli di sviluppo su cui abbiamo fondato la nostra fallace idea di progresso. Senza dubbio la pandemia di Coronavirus sta mettendo in discussione su più livelli molto di ciò che eravamo abituati a dare per scontato, riconsegnandoci una nuova percezione, o almeno più vivida e tangibile, dei nodi critici delle nostre società e offrendoci l’opportunità, almeno in potenza, di una rinnovata stagione di riflessione, lotte, consapevolezze.
Se questo dannato virus ha avuto “pregio”, diciamo così, è stato proprio quello di riportare alla luce, non senza conflittualità e contraddizioni – anzi, amplificandole – rapporti di forza, (dis)equilibri di potere, ineguaglianze strutturali su cui poggia l’attuale sistema socio-economico. Uno dei nodi critici più sentiti è sicuramente quello del lavoro: un tema caldo per il nostro Paese, sull’onda lunga del progressivo aumento della disoccupazione giovanile e dei cosiddetti working poors e dell’affermarsi della precarietà come unica dimensione economica ed esistenziale possibile in tempi di capitalismo sfrenato. E un tema caldo a maggior ragione ora, in piena emergenza sanitaria, in tempi di smart working, dello sfilacciarsi e sovrapporsi sempre maggiore del tempo della vita e del tempo del lavoro, della disperazione di intere categorie professionali e di chi attualmente non sta percependo reddito, tutto questo davanti allo spettro di una crisi che ci aspetta al varco.
Eppure, se la narrazione dominante continua a raccontare questo virus come costitutivamente “democratico”, capace di intaccare in modo “paritario” vite e sistemi, sappiamo che non è così: diventa sempre più evidente che le sue conseguenze non sono affatto uguali per tutti e tutte (ne abbiamo parlato qui). Non possiamo perciò analizzare l’impatto del Coronavirus senza tenere conto delle strutture di potere pre-esistenti nelle nostre società, nelle disuguaglianze radicali e radicate, invisibili ad un occhio poco critico. Non siamo tutt* sulla stessa barca. C’è chi naviga su barcarole e zattere improvvisate, cercando di tappare falle come può. E questo è tanto più vero se pensiamo al grande tema del lavoro e a tutto quello che in termini umani e antropologici si porta dietro. Analizzare le conseguenze della pandemia con un’ottica intersezionale, tenendo conto delle diverse oppressioni e ingiustizie che ci troviamo a vivere e subire, non è mero esercizio accademico, ma offre prospettive particolari e spunti di riflessione per ragionare sulle grandi questioni del nostro tempo da angolazioni differenti e significative, per uno sguardo più globale, completo e complesso sulle nostre società e sulle vite – vite concrete, materiali – che vi sono implicate.
Grande risonanza ha avuto, per esempio, la ricerca di Ipsos pubblicata ieri dal Corriere della Sera (qui) sull’occupazione femminile in Italia. Alleghiamo qui in basso un estratto che mostra in maniera lampante il perpetuarsi di stereotipi legati a lavoro e donne nel nostro Paese. Stereotipi che, lo ricordiamo, hanno conseguenze effettive e materiali sulle esistenze e sulla percezione sociale del ruolo della donna nella nostra società. Il quadro che emerge è desolante: dati che sembrano provenire da un’epoca lontana e ormai dimenticata, e che invece appartengono all’oggi: donne a casa, ad accudire figli e mariti, mogli e madri per destino, natura, eredità biologica. Non solo. A questo c’è da aggiungere il dato che vuole le donne ancora i principali soggetti su cui pesa quasi tutto il carico del lavoro di cura e riproduzione: lavoro, lo sottolineiamo, eppure reso invisibile e non riconosciuto come tale. Lavoro assorbito dal capitale e trasformato in “già dato” per vocazione naturale, e dunque non retribuito né tenuto in considerazione; lavoro su cui si basa il sostenimento e sostentamento, in fondo, della macchina produttiva.
Sono dati che sarebbero scoraggianti a priori e che ci restituiscono una fotografia sconsolante della cultura di genere in Italia, ma che richiedono uno sforzo aggiuntivo di analisi e riflessioni tanto più qui ed ora, alla luce della crisi che stiamo vivendo e delle possibili conseguenze a breve e lungo termine. In un Paese in cui persiste ancora e così forte un’idea della donna “casalinga” per vocazione, quali sono i possibili scenari che si prospettano in un mondo post-pandemia? Quale società ci verrà riconsegnata una volta frenata l’emergenza? C’è il rischio di compiere gravi passi indietro in materia di parità di genere? Quali sono le conseguenze per le donne e per le donne lavoratrici?
Il dibattito è aperto e in corso, ricco di ambiguità e conflittualità. Da una parte c’è chi sostiene che il “rientro” nella dimensione domestica dell’uomo sia qualcosa di fecondo, perché aprirebbe ad una “ricontrattazione” di ruoli che potrebbe produrre anche maggior consapevolezza e cambiamento in positivo; dall’altro lato sappiamo che questo tipo di trasformazioni sono lente e non avvengono dall’oggi al domani, specie in un Paese che di passi da compiere in materia di diritti di genere ne ha ancora tanti. Il rischio che s’affaccia è che siano proprio le donne, ancora, a dover fare da collante sociale, rientrando nella dimensione domestica nel solo ruolo di dispensatrici invisibili di welfare o, peggio, di eroine tutto-fare e multitasking obbligate ancora una volta a ricercare il perfetto equilibrio tra lavoro e casa, tra cura e produzione, in uno scenario, per di più, in cui queste due dimensioni, per forza di cose, si fanno ancora più accavallate e sovrapponibili e in cui lo stesso carico di cura ne esce raddoppiato.
Ricerche e analisi sul rapporto tra gender equality e Coronavirus sono già in corso a livello europeo, tramite ad esempio EIGE e JRC , ma la discussione è vivace e aperta anche e soprattutto al di fuori dei tracciati istituzionali, all’interno dei movimenti femministi e dal basso, della società civile e degli esperti ed esperte in materia. Non possiamo ignorare l’esito che questa fase storica avrà in materia di organizzazione sociale, ruoli di genere, rapporto tra dimensione privata e lavorativa, tempo della vita e tempo della produzione e riproduzione. Non possiamo permetterlo anche a fronte della narrativa che viene affermandosi, ragionando sulla scala di necessità e priorità, e che recita “ora non è il momento di pensarci, non è così importante”. Alta e solida deve restare l’allerta, soprattutto quando è ancora una volta chi detiene un privilegio a decidere per gli altri e le altre chi o cosa, oggi, è da ritenersi prioritario. E qui si aprirebbe una parentesi sulla quasi totale assenza delle donne ai tavoli decisionali e nelle task force implicati nella gestione della pandemia a livello economico, sociale e politico, ma è un dato talmente lampante – e grave – che basterà citarlo come aspetto critico da tenere in considerazione.
E la prospettiva di genere qui adottata può aiutarci anche a individuare altre criticità che riguardano invece tutti e tutte più da vicino. L’altro grande dibattito è quello inaugurato sulla scia dell’affermarsi dello smart-working come modello privilegiato, ora esteso a più ampie categorie e che probabilmente sarà una delle direttrici guida dei futuri scenari per quanto riguarda le trasformazioni nel mondo del lavoro. Ci rendiamo conto del momento eccezionale di emergenza, vogliamo specificarlo ancora una volta per non incorrere in fraintendimenti, ma sappiamo anche, come già detto, che occorre porsi domande e con occhio critico guardare ai cambiamenti in atto innescati e a ciò che questa crisi può comportare in termini di mutamenti di equilibri e modelli di vita.
Quali sono i rischi di una “femminilizzazione del lavoro” che diventa la norma imposta a tutti i lavoratori e lavoratrici? Un nodo caldissimo. Con questa espressione non intendiamo banalmente l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro a seguito delle loro rivendicazioni, ma lo spostamento delle competenze richieste in ambito lavorativo verso modelli storicamente attribuiti alla sfera “femminile”: quel costante lavoro emotivo e relazionale, l’attenzione per la persona e l’individuo, sensibilità e disponibilità, iper-reperibilità, multitasking, frammentarietà, flessibilità.
E’ il capitalismo sfrenato che si appropria delle esigenze e delle rivendicazioni che le donne hanno usato per lottare e veder riconosciuta la loro presenza al di fuori della sfera domestica, un capitalismo che le espropria e ingloba per rivestirsi di umanità, dove a guardar bene ce n’è invece ben poca. Anzi. Belle parole che dietro ne nascondono una, la stessa: precarietà. Lavorare di più, lavorare sempre, per essere però più poveri e povere. Destreggiarsi e frammentarsi in un mercato del lavoro sempre più fluido e anemico, ma allo stesso tempo esigente come mai prima d’ora. Implicare nel processo produttivo risorse umane ed emotive che aggiungono tempo ed energie non riconosciuti, però, come “lavoro” vero e proprio e dunque scontati, non valorizzati, non retribuiti. Sfruttamento. Traiettorie che segnano anche la necessità di uscire da una visione meramente “emancipatoria” ed “egualitaria” delle rivendicazioni delle donne, perché – lo si è visto – il problema è alla base, è nel modello socio-economico dato.
“Tanto sei a casa, che hai di meglio da fare“… vi è capitato, in questi mesi, di sentirvi dire questo nel vostro contesto lavorativo? Vi è capitato di vedervi costretti e costrette a una reperibilità assoluta, anche durante i momenti di pausa? E come la mettiamo con la gestione del lavoro da casa, per tornare all’ottica di genere, a fronte di un lavoro di assistenza e cura raddoppiato se non triplicato? Bene, ricordate che il tempo è davvero denaro. Il denaro di altri, però. E che ora più che mai occorre inaugurare una nuova grande stagione di riflessione e rivendicazione dei diritti sociali, a fronte di un futuro ancora più incerto e precario. Ed è qualcosa da fare insieme, tutt*, mettendo in comune saperi, esigenze, lotte, corpi, vite.
Buon primo Maggio consapevole!