Eclettico, rude, profondamente DYI. Mellifrugo, all’anagrafe Marcello Colasante, rappresenta un’ondata noise in costante contro-tendenza rispetto alle grandi mode musicali italiane.
In tempi in cui il vento mainstream spinge per testi armonici e rime coinvolgenti, Mellifrugo smembra la parola creandone un caleidoscopio di significati. In tempi in cui la struttura intro-strofa-ritornello-bridge rappresenta la quintessenza della composizione, Mellifrugo scombina le carte seguendo un flusso musicale totalmente anarchico. In tempi in cui si cerca ordine, Mellifrugo frantuma le cose rappresentando una confusione in cui possiamo ritrovarci tuttə.
Grande protagonista del nostro Festival delle Cose Belle durante l’ultimo Ferragosto, ha da poco pubblicato dei rework dal suo album Core, spingendo ancora più in là le corde cupe e distorte della propria musica.
Parte integrante del collettivo AWARE – Bellezza Resistente, lo abbiamo incontrato per scoprire le origini della sua arte, l’essenza di una spasmodica ricerca d’indipendenza e cosa si nasconde dietro al verso iconico, vagamente baudelairiano, “Ciucciami le palle“.
Hai da poco partecipato al Festival delle Cose Belle di Aware portando tutta la tua carica noise. Cosa hai ricevuto dall’evento e cosa pensi di aver lasciato tra i faggi di Passolanciano?
Sembra banale da dire, ma il partecipare al Festival delle Cose belle mi ha regalato tante emozioni. A seguito del caos pandemico, poter rivivere il contatto umano e condividere questa esperienza con altri artisti è qualcosa di inestimabile. Lo dico anche perché per me erano passati ormai due anni dalla mia ultima esibizione live. Credo che queste mie sensazioni siano trasparse durante la mia performance (ero un po’ emozionato…). Nonostante ciò credo di essere riuscito a convincere il pubblico e lasciare un ricordo di questo mio progetto sgangherato.
Ecco, il tuo progetto. Facciamo qualche passo indietro e cominciamo dalle origini: da dove viene il nome Mellifrugo?
In base ad un vecchio aneddoto di un mio caro amico, “mellifrugo” significa “squacquerello”, ossia il contrario di “convesso”. Qualsiasi considerazione in merito la lascio alla sensibilità di voi lettori.
Hai cominciato a pubblicare musica nel 2012, con tracce a metà tra l’improvvisazione in presa diretta e la sperimentazione noise. Poi nel 2017 con “Cose serie” decidi di sperimentare una struttura diversa aprendoti a collaborazioni esterne. Nel 2019 torni in solitaria. Ti chiedo: chi o cosa è davvero Mellifrugo? Un cantautore sperimentale o un progetto a più voci?
Mellifrugo non ha una forma ben definita, e come tale non è mai stato soggetto ad alcuno schema preciso, né di genere né tanto meno di formazione. Nel passato ho avuto modo di includere nel progetto alcuni miei amici stretti. Tuttavia, vuoi per motivi logistici o esigenze personali, ho preferito tornare un solista. Penso che questo abbia giovato molto alla longevità della mia identità artistica. Ciò non toglie che ogni tipo di collaborazione è e sarà sempre la benvenuta.
La tua musica è un mix eclettico di chitarre distorte, liriche oniriche e una forza lo-fi che disarma e fa viaggiare. Come nasce e si evolve il tuo processo creativo?
Come per molti artisti, il mio processo creativo nasce in modo totalmente irrazionale. Spesso improvviso con qualche strumento musicale, canticchiando cose a caso, e dopo qualche minuto mi ritrovo con qualche idea che stuzzica il mio interesse. A seguire il flusso può anche raggiungere uno stadio “mistico”, nel senso che anche senza strumenti, tutto mi risuona e si evolve nella testa (ad esempio mi capita di continuare ad arrangiare mentalmente il brano anche ore dopo la sessione, mentre sono sotto la doccia, fumo una sigaretta o cerco di prendere sonno). Fino a questo punto è tutto un lavoro di “pancia” e l’unica cosa importante è di essersi assicurato di aver registrato o annotato qualcosa (anche un breve appunto con il registratore scemo dello smartphone), altrimenti puoi dimenticarti facilmente quello che hai creato e mandare tutto a quel paese. Dopo di che segue il lavoro di produzione, che è formalmente molto più cerebrale e diverso per ogni canzone.
I tuoi testi sembrano cullare chi ascolta al ritmo delle strutture musicali libere e discostanti. Le sillabe si trasformano fino a diventare parte integrante della sonorità. Che importanza rivestono le parole nelle tue opere? Ad esempio in “Adultera” canti di cambiamento e di un particolare momento della vita in cui i sogni evaporano al sole della realtà. Chi è l’adultera di cui canti? Siamo noi, lo è la vita, entrambi?
In genere tendo a scrivere di getto quello che mi passa per la testa, dando più importanza alla musicalità delle parole piuttosto che al loro significato. Sembra controintuitivo, ma spesso deduco un senso ai miei testi solo a canzone conclusa. Questo può dare luogo ad equivoci, tuttavia mi piace anche dare spazio alla libera interpretazione di una mia opera: è giusto che ognuno la veda come vuole.
In Adultera (gioco di parole che nasce dalla fusione di “adulta” e “era”) per l’appunto, ho cercato di comunicare il mio disagio nel voler ancora sognare a trenta anni. Quindi per rispondere alle domande, l’adultera di cui canto non è nessuna oppure, se preferite , possiamo essere noi, la vita ed entrambi.
Hai dichiarato che il tuo scopo di artista è “di mostrare e condividere un ideale di musica alternativa con il pubblico”. In cosa consiste questo ideale? Cosa avverti nel mondo alternative che nel mainstream non trovi?
Mi piace pensare la musica come estensione della nostra anima e come tale un bene che non deve essere commercializzato. Questo non significa che biasimo i musicisti che guadagnano con la loro musica. Tuttavia odio profondamente l’industria musicale e l’infrastruttura di servizi che lucra sulla musica e quindi sugli artisti. Essere musicista, come lo intendo io, è possibile solo all’interno dei contesti underground privi di pregiudizi, come quelli di AWARE. Per questo motivo la vedo dura emergere fuori nel mainstream, in particolare oggi in Italia, anche perché sinceramente l’indie pop italiano, tutta quanto, è imbarazzante.
Hai da poco pubblicato un paio di singoli tratti dal rework del tuo EP “Core”. L’ultima uscita in particolare, “Baleno”, è una cupa ballata post-rock che porta dentro tutta la nostalgia del suono lo-fi. Il finale poi è un delirio intenso e viscerale. Come mai hai scelto di ripubblicare adesso questo brano? E a chi rivolgi il grido “Ciucciami le palle” buttato in faccia a chi ascolta in chiusura del pezzo?
Durante la sessione di registrazione di “Core” avevo realizzato quattro brani, tuttavia nel 2019 ho deciso di pubblicare solo due di essi, vale a dire “Adultera” e “Pacifizio”. Recentemente mi era capitato di rispolverare le canzoni che avevo scartato, ossia “Infiltrazioni” e “Baleno”, e avevo realizzato con mio stupore che erano invecchiate molto bene e che sarebbe stato un peccato nasconderle al mio piccolo pubblico. Al tempo in cui ho composto “Baleno” ero stato colpito dalla vicenda della Blue Whale challenge (fenomeno che tuttora a mio dispiacere è ancora molto attuale…) e avevo cercato di immaginare come sarebbe vivere la pressione sociale tra i banchi di scuola oggi. Ne è venuto fuori così un brano molto criptico. La frase “ciucciami le palle, ciucciami le palle ”, per esempio, si ispira ad una storia raccontatami da un mio caro amico (Ilario in arte “Il Cosa”) e mi era sembrata ottimale per chiudere il mio discorso “Non sono alla moda, non lo sono mai stato e mai lo sarò. Ma a te non importa, e allora …”. Caso vuole che la maggior parte del mio pubblico mi ricorda quasi esclusivamente per questa frase goliardica. Ma, come ho scritto in precedenza, a volte se analizzi con più attenzione un testo, magari puoi trovarci qualcosa di più profondo sotto.
Ti sei trasferito da qualche settimana nei Paesi Bassi, patria indiscussa di un clubbing molto elettronico. Cosa cambierà nel tuo fare musica, tanto in studio quanto dal vivo?
Andando avanti credo che la componente elettronica sarà sempre più presente nella mia musica (in verità la mia “transizione digitale” era ormai iniziata da un po’ di tempo…). Tuttavia sarebbe scorretto intendere questo cambiamento come una sorta di “rivoluzione”. Cambiano i miei mezzi e il sound, ma mai le mie radici DIY.
Da tempo sei parte integrante del collettivo Aware – Bellezza Resistente, occupandoti in particolare di curare la selezione artistica e musicale durante eventi e nuovi progetti. A tuo avviso, cosa significa “arte resistente” oggi? La tua musica incarna una qualche forma di resistenza?
L’arte resistente è quella che non subisce gli influssi delle mode di massa e rimane imperturbabile nei propri ideali, primo fra tutti la sensibilizzazione delle persone ai grandi temi di interesse sociale, tra cui i cambiamenti climatici, la questione di genere, i temi razziali, i diritti sul lavoro etc. Dal mio lato posso sicuramente dire che mantenere viva la mia musica è divenuto quasi una battaglia personale contro il pregiudizio e l’omologazione. E questa cosa, anche grazie alla mia presenza in AWARE, la sento più viva che mai. Quindi in un certo senso, sì, resisto anche io.
Resistiamo insieme. Grazie Marsch!