Mi chiedo spesso perché sono così pochi gli esempi di pubblicità che abbiano il coraggio di osare e, in fondo, di rappresentarmi. Mi chiedo come mai durante il lockdown, pres* dalla paura, abbiamo promesso a noi stess* che dopo la pandemia saremmo stat* migliori, che ci saremmo impegnat* a cambiare la società, quando tutto ciò che proponeva la televisione e il dibattito politico e pubblico era una pubblicità e un ordine del discorso che ci diceva che tutto sarebbe andato bene, mostrandoci però la famiglia eteronormata come unica realtà degna di rappresentazione.
Mi sono immaginata le donne vittime di violenza domestica (le richieste di aiuto al numero di emergenza hanno avuto un incremento del 75% rispetto allo stesso periodo nel 2019) costrette tra le mura di una casa non sicura, magari proprio sul divano con il loro partner ad ascoltare quegli annunci. Il mio pensiero non va solo a loro, ma anche agli e alle adolescenti che fanno parte di una famiglia che non li accetta.
Non abbiamo fatto passi avanti, siamo tornat* indietro. Eppure siamo nel 2020 e il desiderio di nuovi punti di vista, di distacco e superamento dalle vecchie impostazioni sembra almeno essere nell’aria. In questo scenario di rivendicazione si configura anche il movimento #blacklivesmatter, che dall’America ha presto trovato alleanza in tutto il mondo e in Italia ha creato, tra gli altri, il dibattito riguardo all’esaltazione nel contesto degli spazi pubblici del suprematismo bianco, del privilegio maschile e della storia coloniale.
Quando pochi giorni fa ho visto l’ultima campagna di Cheap per le strade di Bologna mi sono sentita veramente felice. Il primo intervento realizzato dall’inizio del lockdown è una campagna di public street-art che mette i cittadini e le cittadine di fronte alla realtà, confermando la capacità del collettivo femminile di dare voce e di usare l’arte e gli spazi urbani per fare denuncia.
La campagna si chiama La lotta è FICA e le venticinque artiste partecipanti sono tutte donne. Fumettiste, grafiche, fotografe, illustratrici, performer e street artist hanno usato diversi media per raccontare la lotta femminista, creando uno scenario di rappresentazioni vastissimo che non lascia fuori nessun*.
Nei poster viene interpretato il corpo delle donne attraverso il loro sguardo, mettendo in atto un cambio di paradigma e celebrando l’amore trans, le diversità e l’uscita dai binari. Si porta l’attenzione al concetto di body acceptance e all’esistenza e legittimazione dei corpi non conformi, si rivendica una sessualità libera e si fa sentire tutta la volontà della lotta transfemminista e intersezionale, intersecando i temi delll’antirazzismo.
Utilizzare lo spazio urbano per fare storytelling è una scelta coraggiosa e necessaria: sui manifesti ci sbatti la testa, non puoi ignorarli, e diversamente da una campagna online questi rimangono lì, creano dialoghi e si impongono sulle persone che attraversano quelle vie, chiedendo di essere guardati e i loro messaggi interiorizzati. Se per qualcun* la visione di queste testimonianze femministe susciterà serenità, ad altr* darà fastidio, procurerà vergogna e sdegno.
Questo ci porta anche a delle considerazioni: ci dimostra che non tutto è online, o funziona solo online, basta usare i codici della città a favore della creatività. Proprio adesso che si sta lentamente tornando a vivere gli spazi, i manifesti di Cheap sono una presenza fisica costante.
La lotta è FICA è un meraviglioso lavoro di fluidità: dei concetti, attraverso l’importanza fondamentale dell’intersezionalità; del mezzo, per la pluralità degli strumenti impiegati; delle esperienze, appunto, perché ogni affissione a suo modo porta con sé la sua storia, unica e meritevole di essere.
Vi lasciamo con una gallery di alcuni dei manifesti della campagna. Per ammirarli tutti, vi rimandiamo alla pagina Facebook ufficiale del progetto Cheap: qui.
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Le foto sono di Michele Lapini in gentile concessione da parte di Cheap