Quando è cominciato tutto?
Non so mai bene come rispondere a questa domanda. La gente si aspetta che tu abbia le idee chiare a riguardo, che tu riesca a tracciare un confine netto tra un prima e un dopo, una cinta muraria che racchiuda, da un lato, tutto quello che ti rendeva un tempo “normale“, dall’altro ciò che invece si è insinuato in quella normalità per farla a pezzi. Ti chiedono il quando, ma vogliono in realtà conoscere il perché. Vogliono sapere l’ora esatta della mutazione e gli ingredienti base del disastro. Io questa formula non la conosco, perciò mi limito quasi sempre a dare ciò che vogliono: rassicurazione. Non li biasimo per questo, al loro posto forse anche io vorrei ancora vedere nel mondo quella linea chiara e invalicabile che ci divide tra normali e anormali, sani e malati.
Quel confine l’ho perso molto tempo fa, ma non me ne sono resa conto subito. Se non conosco la formula esatta della disfatta, col tempo ho imparato a riavvolgere il filo di Arianna della mia vita e ad arrivare il più vicino possibile a quel Big Bang di disperazione. È come per l’origine dell’universo. Sappiamo della scintilla, ma non ne conosciamo la causa. Chi ha dato il la? Arriviamo al momento X, l’esplosione. Ma non sappiamo niente di come fosse l’Universo prima e di quale misteriosa forza abbia innescato il processo e acceso la miccia. Facciamo ipotesi. Così per la depressione. Quale intelligenza perversa, quale ombra appena intravista di sbieco ha manomesso il mio cervello creandovi dentro mondi paralleli a piacimento? Quale artiglio ha squarciato per primo la realtà causando quell’interferenza nello spazio-tempo della mia vita? Come è arrivato a me quel mostro, da quali galassie fumose, seguendo quali mappe siderali? E soprattutto, perché nessuno mi ha avvertita del suo vagare senza pace, del suo pianto furioso che pervade di sé l’universo?
Come detto, non posso andare oltre quel momento X, l’istante in cui lo squarcio sul mondo si è aperto e io vi ho guardato attraverso. Dopo tanti anni e tanto riavvolgere matasse, per poi dipanarle ancora, scombinarle e di nuovo procedere a ritroso, sono arrivata però lì, almeno. L’attimo in cui tutto ha avuto inizio, o almeno ne ho avuto consapevolezza. Un’epifania distorta, oppure l’unica davvero reale… questo devo ancora capirlo io stessa, perciò non chiederò a voi di farlo. Avevo circa 8 o 9 anni, forse anche meno. Ricordo che guardavo dalla finestra che s’affaccia sul cortile della palazzina popolare in cui vivo. Era una bella giornata, di quelle in cui il sole sembra quasi abbracciarti. Sentivo i gridolini dei bambini che correvano nel prato, calpestando incuranti l’erba turgida e le prime margherite spuntate. Seguivo i loro movimenti vorticosi a destra e sinistra, vedevo i loro corpi fendere l’aria, cadere e sollevarsi nelle pose più strane e disarticolate. D’improvviso è successo qualcosa. Tutto si è fatto confuso, come se una nebbia avesse invaso il mio piccolo ritaglio di universo, il reticolo di realtà che ero abituata a chiamare mondo.
Quei corpi, colti nel loro movimento disattento e quasi indifferente, hanno iniziato a mutare sotto i miei occhi in qualcos’altro. Non distinguevo più le fattezze umane, sembravano ammassi di materia sballottati qui e lì da una forza oscura. Tutto pareva sbiadire, scolorire, come se una mano scrupolosa stesse cancellando via la vita e il calore dalle cose. Mi sembrava che i palazzi trasudassero dolore, così come ogni albero e ogni fiore decapitato dalla noncuranza di quei piedi; ogni brulichìo o battito o scricchiolìo, ogni fiato di vento, ogni luccichìo lontano era un lamento soffuso nell’aria, sempre più forte, sempre più acuto. Un terrore bianco mi si è aggrappato alle ciglia. Forse lì è successo, è stato quello il momento in cui quel mostro ha deciso che fossi la casa perfetta. L’ho sentito insinuarsi da sotto le palpebre e fissare lì la sua dimora, l’ho sentito scivolare come un’ombra dentro.
È stato allora che l’ho visto, chiarissimo, dall’alto dei miei candidi 8 o 9 anni, attraverso i miei occhi di bambina. Il pianto muto delle cose. La caducità del creato. Era come se tutto mi implorasse di essere amato e goduto, subito e con energia, perché sarebbe potuto scivolare via da un istante all’altro, dissolversi in un’eco lontana, una radiazione di fondo che andasse a raccontare in altri tempi e spazi ciò che un tempo era stato. Mi sono sentita impotente e in colpa per questo. Una tristezza assoluta mi ha pervasa. Ho pianto, lì, alla finestra. Poi è arrivata mia madre. – Che succede? Perché piangi? – Sono triste, mamma. Ricordo vagamente la sua risposta: – Ogni tanto è normale, quando si cresce ci si sente a volte un po’ scombussolati. Ricordo la carezza sulla testa e la calma tornare nel mio petto.
La mia vita è andata avanti. Una vita normale, tutto sommato. Sentivo quella tristezza ogni tanto risalire, ricordo i capogiri improvvisi, le notti insonni, i ronzii nella testa. A poco a poco tutto questo è davvero diventato normale. Era il mio segreto. Da piccola giocavo con le mie amiche a fare la strega, io non dicevo loro che pensavo di averli per davvero i poteri. Vedevo cose a cui loro non avevano accesso. Sentivo gli alberi cantare e parlavo con loro. Sentivo lo strazio del mondo che chiedeva solo di essere amato, rassicurato, in un certo senso. La ferita del creato di cui qualcuno doveva pur farsi carico.
Quando ho raccontato questa storia al mio terapista, ho concluso il racconto chiedendo: – Secondo te sono pazza?
– No, sei solo molto sensibile.
– Questa l’ho già sentita. Tante persone sono sensibili ma non stanno male così. Sei sicuro che non sono pazza? Forse non è la depressione il problema. Forse sono solo svitata.
Ho accompagnato la parola portando l’indice alla tempia e tamburellando su di essa.
– Tu pensi essere pazza?
Ho sospirato, stringendo le ginocchia.
– No, non lo so. Forse pazza no. Sai che cos’è? Forse sono solo tanto egocentrica da aver pensato, fin da piccola, di poter salvare il mondo. Non ti sembra il delirio di una megalomane, questo? Dio santo, qua finisce che non sono né depressa, né pazza e nemmeno sensibile, ma solo una boriosa di merda.
– Non sei troppo dura con te stessa? Stiamo lavorando sul giudizio.
– Hai ragione. No, guarda. Forse sono solo una persona ingrata. Una persona che disprezza la vita.
– Tu pensi che la storia che mi hai raccontato significhi questo?
– Cosa dovrebbe significare? Cazzo, ti ho raccontato che vedevo i bambini giocare e pensavo alla fine di ogni cosa a 9 anni!
– No. Mi hai raccontato che pensavi alla caducità delle cose e ne soffrivi a tal punto da sentirti in dovere di goderne e prendertene cura.
– E questo che significa, quindi?
– Significa che sei attaccata alla vita più d’ogni altra cosa.
– Io secondo te non disprezzo la vita? Non la odio?
– Questo non è odio. Questo è amore.
Dicevo: non conosco la formula del disastro. Posso arrivare a raccontare come tutto è successo, non perché. Ma forse ad una piccola verità ci sono arrivata. Su di me, sia chiaro. Ho sempre pensato che la mia sofferenza presupponesse una sorta di legame a fil di ferro con la morte, come un’attrazione, una malformazione congenita dei sensi. Credevo di disprezzare la vita a tal punto da vederla sempre unita a questo senso di fine imminente, di catastrofe. È bastato cambiare prospettiva per capire che quello che credevo disprezzo fosse invece una dichiarazione d’amore. C’è una frase che mi accompagna da allora, tratta da un romanzo letto anni prima: «poi lo guardò, e vide la sua padronanza invincibile, il suo amore impavido, e lo turbò il sospetto che è la vita, più che la morte, a non avere limiti».
Questa è una storia vera e ho appena cominciato a raccontarla.
Immagine in evidenza: illustrazione di Sara Dealbera.
[Continua ogni venerdì su Il diario della depressa, sempre nella categoria ConsapevolMente. Qui la prima storia].