– di Giorgio Barbieri
Negli anni ’60 dello scorso secolo Luigi Nono componeva “La fabbrica illuminata”, opera per soprano e nastro magnetico a 4 piste (una parte si può ascoltare qui).
Dedica: “Agli operai dell’Italsider di Genova”.
I testi sono di Giuliano Scabia.
Inizia così:
“Fabbrica dei morti la chiamavano
esposizione operaia
a ustioni
a esalazioni nocive
a gran masse di acciaio fuso
esposizione operaia
a elevatissime temperature
su otto ore solo due ne intasca l’operaio
esposizione operaia
a materiali proiettati
relazioni umane per accelerare i tempi”…
E finisce così:
“Passeranno i mattini
passeranno le angosce
non sarà così sempre
ritroverai qualcosa”.
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La fabbrica illuminata.
Bagliori rossastri giorno e notte ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette.
Fumo rosso, scuro, denso e cattivo dalle “corna” sulla sommità del capannone.
Fumo rosso, scuro, denso e cattivo ad ogni colata ad invadere la città.
E tanto rumore, forte, assordante, ti entra nello stomaco, nella pancia.
Nella fabbrica, tante formichine intente a produrre, produrre, produrre.
Un brulichio di persone.
Forse per questo oggi mi fermo a vedere i formicai.
O, forse, è meglio esser cicala.
Si lavora, giorno e notte, si illumina la fabbrica.
Si respirano schifezze, caldo e freddo, scintille d’acciaio nel collo.
Elmetto, occhiali, guantoni, tute di panno ruvido.
Passerà il turno, passerà la settimana.
Si arriverà a fine mese, la paga.
Quella paga che ti permette di arrivare al prossimo mese.
Non tanto di più.
Ma per qualcuno, per 1000 e più ogni anno
Il turno si è interrotto.
Il fine settimana non è più arrivato.
E nemmeno la fine del mese.
Cambierà. Forse.
Ed è cambiato. Tutto.
La fabbrica illuminata si è spenta.
Buio.
Silenzio.
Non c’è più il fumo rosso, scuro, denso e cattivo.
Non ci sono più nemmeno gli operai.
I capannoni guardano la città con i loro occhi di vetro infranti.
Raccontano un passato.
Gli spogliatoi degli operai sono deserti.
Silenzio.
Non si sentono più le grida.
Le battute e le risate.
Le imprecazioni e gli scherzi.
Non si sente più il rumore secco delle timbrature.
Non si sentono più i saluti la mattina presto.
Non si sente più il rumore secco delle timbrature.
Non si sentono più i saluti il pomeriggio.
Non si sente più il rumore secco delle timbrature.
Non si sentono più i saluti la notte.
Non si sentono più i dialetti.
Le battute in bergamasco e la risposta in siciliano.
La battuta in calabrese e la risposta in brianzolo.
Silenzio.
E i vecchi operai li puoi trovare. Altrove.
Alcuni nei parchi, quando ci sono.
Altri in mezzo al cemento della città.
Atri ancora lungo i muri di cinta di quello che fu il loro stabilimento.
Passeggiano verso i centri anziani.
Pensano e ricordano.
Altri li trovi in foto, giacca e cravatta.
Sulle lapidi nei cimiteri.
Gli spazi della produzione non ci sono più.
Sono diventati spazi improbabili.
E per molto tempo rimasti spazi indecisi.
Luoghi spettrali che si ingegnano per trasformarli.
In qualcosa di inutile, futile.
Ma che renda, e tanto.
Un centro commerciale.
Un alveare abitativo.
Un formicaio di uffici.
Sfruttamento del suolo.
E il reddito è salvo.
E una piccola parte museo.
Archeologia industriale, dicono.
Ma chi guarda quei relitti ridipinti, ricorda.
Ma l’anima è salva. E la memoria resta.
In foto: scatti di uno stabilimento Falck di Sesto San Giovanni, di Paolo Sangalli