J. è un mio grande amico. Ci siamo conosciuti fuori da un bar del centro a Milano, chiedeva elemosina aprendo la mano cerulea e liscia con timidezza, quasi a pregare perdono per un gesto così pietoso. Abbiamo centellinato un cappuccino insieme, poi un cornetto, nei suoi occhi trovavo l’ombra di un passato che non si azzardava ad uscire dalle labbra.
Quel giorno scoprii solo che veniva dalla Nigeria, aveva 23 anni, e viveva in un campo di accoglienza sulla strada verso Padova. Amava la Juve e gli gnocchi al ragù. Gli raccontai che mia nonna ne faceva di fenomenali e che mio papà mi aveva insegnato a pronunciare prima le sillabe Del-Pie-ro che il proprio nome. Bastarono questi piccoli lacci a farci vicini, tanto da lasciarci con la promessa di rincontrarci presto. Da allora abbiamo continuato a frequentarci con regolarità. Ho imparato a riconoscere i suoi silenzi, i suoi sguardi bassi, i suoi sorrisi pieni, le mani morbide poco avvezze alla carità della strada. A poco a poco, siamo diventati amici. La mia esperienza come avvocato praticante con una scarsa passione per la cravatta di rito ha poi aperto le porte alla sua richiesta flebile di aiuto. È stato di fronte all’ennesimo cappuccino ben zuccherato che ho scoperto cosa si nascondesse dietro quegli occhi scuri e lucidi.
J. viene da un villaggino di case in terra cruda dove i capitribù decidono della morte e resurrezione delle poche anime che le abitano. Viveva una infanzia dura ma felice alternando i quaderni di scuola ricevuti dal fratello alla cazzuola con la quale aiutava il papà di ritorno alla sera.
Un giorno scoppia una faida tra le comunità dell’area ed è costretto ad arrabattare i quattro libri in uno zaino senza lacci per scappare su un camioncino sgangherato assieme alla famiglia. Il papà e il fratello più grande vengono uccisi nella fuga. Rimane solo stretto tra le mani della madre e della sorella.
Arrivano a Benin City scalzi, negli occhi la sconsolatezza di una vita infranta. Tentano di arrangiarsi come possono facendo affidamento alla clemenza dei famigliari in città. La vita da sfollati è un catino prosciugato arrugginito ogni giorno di più dal sole inclemente del centro-Africa. Dopo qualche tempo decidono di impegnare i quattro spicci in tasca per lasciar partire l’ultimo uomo della famiglia, fiammella flebile di speranza rimasta miracolosamente accesa. È così che comincia l’epopea di J. sulla strada.
Attraversa mezzo continente scivolando da un camion all’altro. Segue carovane di migranti in fuga come lui da un passato che non si sussurra per timore di riportarlo in vita, alla ricerca di un domani altrettanto muto per qualche forma di tragica scaramanzia. Dopo mesi arriva in Libia, qui sfugge ai controlli cruenti delle forze armate e sale sulla prima barcucola disponibile pagando con ciò che rimane del pegno lasciatogli dalla madre. Giorni in mare, il rollio della barca che si mescola al suono gonfio dei sogni finalmente vivi alla vista della terra che brilla sempre più grande all’orizzonte.
Viene raccolto dalla Guardia Costiera, Lampedusa, controlli di frontiera, chiede l’asilo, esausto, «A-si-lo, a-si-lo!», così gli hanno detto di ripetere all’arrivo. La processione dell’accoglienza lo rimette sulla strada rimbalzando di struttura in struttura. Atterra finalmente in quella di Valle Lomellina, gestita dalla Croce Rossa. Un letto, un tetto, un luogo dove riposare i pensieri stanchi dopo mesi nella polvere. È qui che l’ho conosciuto, è qui che le mie pupille morbide hanno incontrato le sue indurite dal viaggio.
J. è un richiedente asilo. La domanda di protezione internazionale è al vaglio delle autorità giudiziarie italiane. La sua storia indicibile, muta, è ora scritta nelle mani di un giudice, spettacolo terribile dal quale dipende il senso di un lungo travaglio di speranza. Nell’attesa del verdetto finale J. si è rimboccato le maniche e ha preso a lavoricchiare come può. Ha cominciato distribuendo volantini nelle periferie di Milano. Ha collaborato per una ditta di traslochi. Grazie all’aiuto di varie associazioni ha potuto seguire un corso da magazziniere specializzato ed ora ha trovato occupazione stabile presso una impresa d’imballaggi.
È felice, avverte la speranza farsi terra sotto i piedi. Ci sentiamo di quando in quando, mi rincuora dicendo che non deve più fare elemosina, che aspetta il “definitivo” fiducioso, Dio lo accompagna, la sua storia ha un senso e ne percepisce il brulichio srotolarsi davanti agli occhi ogni mattina.
Racconti come quelli di J. portano con sé il potere inconsapevole di dare la misura alle cose, una misura più adatta, più chiara, più giusta, appropriata. Dietro a quella mano aperta, dietro a quella pupilla consumata, resiste tacita una storia densa, viva, bruciata dalla ricerca di qualcosa in più, che sia anche solo un tetto o un luogo dove sentirsi in pace. Grazie a quel primo cappuccino centellinato parlando di ragù e Del Piero, ho riscoperto il senso d’incontrarsi oltre lo sguardo sfuggente della strada, di fermarsi, ascoltare.
Le sue palme timide e bianche mi hanno sussurrato l’importanza di esserci e credere in un destino unico che ci unisce tutti, in qualche modo incomprensibile, ineluttabile, assoluto. La diversità, la lontananza, si nasconde meschina nelle pupille di chi guarda. Nasce allora un pensiero leggero: chiudiamole, immergiamoci in quelle di chi è di fronte.
Camminiamo nei suoi ricordi disperati, accarezziamo i suoi sogni limpidi. Li avremo lì, più vicini. Inizieremo a vedere anche noi il brillio della terra farsi grande oltre la linea del mare e il rollio della barca andare a tempo con le nostre speranze. La spiaggia di sabbia fina sarà un luogo calmo dove sentirsi a casa, anche per noi, soprattutto per noi. Insieme, potremo dirci rifugiati del medesimo passato e centellinare un cappuccino all’angolo di un bar sarà come ritrovarsi dopo un lungo viaggio. Finalmente, insieme.
Come è giusto che sia.
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