– di Lara Leonardi
Lara ci racconta la sua esperienza di servizio civile in Zambia, consegnandoci una lezione molto importante: conoscere una diversa cultura significa anche imparare a mettersi in discussione, lasciando a casa quel bagaglio d’arroganza che spesso contraddistingue noi occidentali.
Sono passati ormai 6 mesi dal mio arrivo in Zambia e questo vuol dire che sono quasi a metà percorso del mio servizio civile. Da Marzo vivo e lavoro a Kanyama, uno dei compound più poveri di Lusaka. Qui seguo i progetti de L’Africa Chiama, una ONG presente sul territorio zambiano da quasi 20 anni, il cui principale obbiettivo è sempre stato quello di garantire i diritti fondamentali di istruzione e sanità alle persone più vulnerabili. Qualche settimana fa, mentre raccontavo alle mie amiche la mia ennesima giornata senza luce e senza acqua, una di loro mi ha chiesto come facessi a non essermi già stancata di questo posto. Effettivamente un po’ stanca lo sono e l’Italia mi manca tantissimo. Mi mancano le abitudini, le comodità, il cibo, gli affetti ed i nostri modi di fare. Ma mai per un attimo ho pensato, in questi 6 mesi, di aver fatto la scelta sbagliata o di voler tornare a casa prima del tempo. Così mi è tornato in mente cosa avessi scritto in una delle giornate più pesanti avute fino ad ora, quelle in cui lo scontro tra la tua cultura e quella del paese ospitante ti arriva addosso con tutta la sua forza.
Tre mesi fa infatti scrivevo:
“Tre mesi! Troppo veloce, troppo veloce! Il tempo qui ha un andamento strano, ma il mio di tempo va al contrario rispetto allo zambian time, espressione largamente usata per giustificare le mille ore di ritardo che hanno sempre tutti quaggiù. Il tempo scorre lento nella vita di queste persone. E la parola ieri è uguale alla parola domani, non vi è distinzione, e questo già mi dice tutto. In questo mese di riapertura della scuola, ho osservato più volte il modo di insegnare, di fare scuola e soprattutto il modo di accogliere (o di non farlo) le difficoltà dei bimbi. La logopedista che è in me ha urlato più volte, si è arrabbiata, voleva parlare, ma non l’ha fatto. L’educazione e la pedagogia sono infatti anche frutto della cultura, delle tradizioni e della storia di un popolo, soprattutto in paesi complessi come lo Zambia. Da quando sono qui devo sempre prima ricordarmi di contare fino a dieci, fare un passo indietro, guardare meglio, contestualizzare, ricontare fino a dieci e poi fare altre considerazioni su ciò che sto guardando. Altrimenti il rischio è sempre lo stesso: portare il proprio bagaglio personale e culturale e imporlo pensando sia quello giusto.
Ho sempre dato un’importanza straordinaria al contenitore emotivo delle figure educative che ruotano intorno ai bambini, l’importanza di una relazione sana, di cura, di affetto. Oggi ho faticato a trovarla e contare fino a dieci per non buttarsi nel facile atto del giudicare è stato molto difficile. Ma a questo serve essere qui. Mi insegna a fermarmi, a mettere in discussione tutto ciò che ho per certo e a sceglierlo di nuovo o, talvolta, a modificarlo. In fondo penso sia questo il modo migliore per crescere e diventare chi si è chiamati ad essere: conoscendo il diverso da noi, facendo le nostre considerazioni ed essendo pronti e disposti a modificarci o a riconfermarci. A volte il divario culturale che sento con questo popolo mi schiaccia, ma continuo a sentirmi nel posto giusto e al momento giusto. Sto cercando il mio piccolo spazio tra questa gente che è sempre disposta a mostrarti le proprie fragilità. Magari ne fossimo capaci noi, quelli del mondo della perfezione, dove ogni difficoltà è peccato”.
Con tutte le cose che facciamo qui, i progetti, le novità, le scoperte, il lato emotivo e di crescita può passare inosservato, ma è uno dei regali più grandi che mi sta offrendo questo anno di servizio civile all’estero: essere appagata, essere soddisfatta e non avere bisogno di inventarmi altri desideri per convincermi di poter essere felice.