“È un raduno, l’incontro di una famiglia che ti scegli, un momento per ritrovarsi dopo tempo e capire che sogni sognare insieme per l’anno che viene”.
Negli occhi Jimi ha ancora il trucco della nottata, la voce impastata e roca profuma di gin tonic. Tra i capelli una piuma color terra contribuisce ad avvolgere ogni sillaba di un alone sospeso da oracolo sciamanico.
Lo sciame di pupille ancora spente di sonno barcolla intorno alla ricerca di una tazza di caffè, il sole dritto di mezzogiorno abbraccia di luce calda e profonda il verde mare dell’Appennino.
Sarà stata la mattinata della domenica o del lunedì, o forse anche del martedì, difficile ricordarlo (a distanza di qualche settimana la memoria sfuma in una nebbiolina di sensazioni confuse e ingarbugliate). Quello che resta nitido è il senso di alcuni istanti, il fermo immagine che lasciano stampate sulla corteccia delle sensazioni e lo slancio che regalano a quello che serve per i giorni a venire.
Le parole di Jimi sono uno di quei momenti. Chiare, dritte, proprio lì dove probabilmente stavano da prima che le dicesse.
A due mesi da quanto vissuto tra le colline del Sol Ribaldo, ancora sanno raccontare lo spirito silenzioso e dirompente che ha albergato nell’intreccio di storie e voci del Festival delle Cose Belle.
Al di là delle decine di laboratori, dei tuffi sudati dal palco e dei baci dell’alba tra labbra dipinte di pittura fluorescente.
Al di là delle domande aperte e delle riflessioni lasciate in sospeso a prendere l’aria che serve per trovare la risposta mancante.
Al di là del tempo vissuto assaporandone l’essenza leggera. Al di là dei black-out e della line-up mai in orario.
Al di là di tutto, quello che ha avvolto di un sottile misticismo i cinque giorni di Ferragosto al Sol Ribaldo è stato il sognare uno stesso sogno da portare appresso come una promessa; il consenso muto di stringersi attorno ad un solo ritmo e farne segreto da custodire fino al prossimo raduno.
Si è respirato questo sogno da sognare insieme negli sguardi diffidenti divenuti familiari dopo il primo abbraccio durato minuti nei laboratori di riconnessione fisica di Teatro Selvatico, o nelle mani impastate di un fare creativo durante i workshop di hand-poke.
Si è respirato lo stesso sogno nel nugolo di domande fiorite come nuvole di pioggia durante i dibattiti guidati da Mai più lager – NO ai CPR su come riscrivere i confini degli stati fino a farli scomparire in una nuova visione di accoglienza o da Cascina Bosco Fornasara, sulla possibilità di far tornare fertili di semi terre rese sterili dal consumo sfrenato. E nelle promesse d’impegno che ne sono seguite, figlie di visioni lontane che si sono riconosciute parte della stessa esigenza di cambiamento.
È un sogno apparso chiaro nelle pupille euforiche dei balli sfrenati della notte, tra il rock alla Ian Curtis dei MILANOSPORT e il soul caldo di Ivana LCX, la magia onirica dei Niagara e l’elettronica ballerina di Ela, a rivendicare la libertà di accendersi fino a iniettare di colore ogni cosa intorno. E nelle stesse pupille bagnate di una commozione collettiva quando i canti swahili di MJoe hanno giocato a intrecciarsi con i versi in portoghese brasiliano di Flaira Ferro, disegnando un mappamondo di suoni senza confini in cui vedere riflessa l’essenza delle chiacchierate della mattina.
Quelli del Festival delle Cose Belle sono stati giorni di braccia intrecciate e sguardi intensi, mani impastate del profumo aspro della montagna appena sveglia e piedi scalzi a lasciare impronte d’acqua ovunque andassero.
Sono stati giorni di racconto, ascolto e silenzio. Giorni in cui costruire ponti invisibili destinati a tracciare i confini mobili di una empatia antica e necessaria.
Sono stati giorni di festa; accesa, sgangherata, impaziente. Sono stati anche giorni di parole profonde e confronti fitti, giorni in cui immaginare la linea di uno spazio nuovo dove rappresentare tutti gli spazi che vorremmo vivere come casa quotidianamente. Spazi accoglienti, carezze per l’urgenza di appartenere che ognunə di noi porta appresso.
Il Festival delle Cose Belle di AWARE è stato il luogo in cui ritrovarsi e decidere di essere insieme. Cosa? Non lo sappiamo ancora. La decisione presa è di essere qualcosa, all’unisono. Comunità, intreccio di storie, sguardi aggrappati allo stesso legame? Non è importante cosa, la rivoluzione è cominciata con la scelta silenziosa di esserlo, insieme.
Questo spartito di colori diversi sfumati sullo stesso orizzonte è il sogno condiviso che ognunə porterà dietro per l’anno che ci separa al prossimo incontro. La consapevolezza di appartenere a una casa fatta di braccia in movimento e sguardi inzuppati di cose ancora da immaginare, coriandoli affusolati da spargere come lucciole notturne nel grigio bitume di qualsiasi strada che vorremo attraversare.
Basteranno le note allegre dell’afrobeat di MJoe o un abbraccio stretto nel silenzio di un tramonto arancio a ricordare che la vera essenza della Tribù delle Cose Belle è sparsa come sabbia in ogni fazzoletto di terra. Solida e fuggente come una felicità collettiva. Condivisa e necessaria come un sogno da far fiorire ogni anno.
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