All’inizio dell’anno avevo scritto un post sull’inizio dell’anno, perché era gennaio. Lo avevo fatto anche se, come sanno tutti, il vero inizio dell’anno è adesso, a settembre.
Quando andavo alle elementari settembre mi piaceva tanto perché ricominciava la scuola e a me piaceva andare a scuola. Mi piaceva comprare i quaderni e le penne nuove. Aprivo e chiudevo l’astuccio solo per guardare le matite e i pennarelli in fila e per cambiare l’ordine dei colori.
Quando andavo al liceo, invece, sbarravo con orrore sul calendario i giorni che mi separavano dall’inizio della scuola, mentre annunciavo a mia madre che intendevo emigrare in Australia. Quindi facevo delle liste. Liste di cose da fare che potessero tirarmi un po’ su, ma che spesso finivano per farmi solo venire il panico di non stare facendo tutto quello che avevo scritto sulle liste.
Continuo a fare liste anche adesso. Spesso uso le liste per dare una direzione al mio panico. O per fargli imparare qualcosa.
Quest’anno ho deciso di insegnare al mio panico a stare nelle cose che gli stanno scomode, a non girarsi dall’altra parte facendo finta che le cose scomode non esistano davvero. Che è uno dei modi con cui il panico reagisce di fronte alle cose troppo grandi e troppo scomode. In genere ha solo due alternative: fare finta di nulla o disperarsi.
Ci sono tante cose scomode ma alcune entrano nella mia testa più di altre. Alcune, una volta entrate, ci restano per un po’. Altre ci restano per tanto tempo. Alcune non riescono ad andare via. Una cosa che non riesce ad andare via dalla mia testa è la crisi climatica. Che è una parola fastidiosa e che non attira mai nessuno. È una parola che non dico spesso perché quando la dico poi non so mai che cosa altro dire o, forse, da dove cominciare. Sembra che resti sempre una cosa vaga.
Allora il mio panico per il pianeta, che è spesso con me a farmi compagnia mi rinfaccia che non sono brava a parlarne.
Mi dice che ci sono tante e tante cose concrete da poter nominare. I ghiacciai e le foreste, per esempio, sono concreti. Anche gli oceani. Ci sarebbero tante cose da dire su di loro. Le volevo scrivere qui ma poi ho pensato di non scriverle. O forse non ci sono riuscita. Perché il problema, ho capito, sono le parole per parlarne.
Al panico piace usare le parole. Ma, a volte, le parole non si trovano così facilmente.
«If scientists’ predictions prove accurate about the future of the oceans and the atmosphere, about the future of weather systems, about the future of glaciers and coastal ecosystems, then we must ask what words can encapsulate those immense issues». Ovvero: quando parliamo del futuro dell’ecosistema siamo letteralmente senza parole.
Dice così Andri Snær Magnason in On Time and Water, un libro che mi ha regalato A quando ha capito che non avrei mai smesso di leggere articoli su articoli sulla crisi climatica, anche se mi facevano venire il panico.
Io e il mio panico, allora, in attesa di scoprire abbastanza nuove parole e poterle scrivere qui, abbiamo usato quelle già conosciute per scrivere una lista.
In realtà ne abbiamo scritte due, ma nella seconda non c’era molto da scrivere.
La prima lista ha anche un suo nome proprio, si chiama Il panico conta. Nel senso proprio che fa i calcoli. Il panico per ora conta due cose: tutte le volte che usa la macchina e per quanto tempo la usa, e «era davvero così necessario usarla?»; il panico conta i rifiuti che produce, che sono pochi ma al panico sembrano sempre troppi perché non è bravo con le vie di mezzo.
So benissimo che il mio contare non servirà a mettere toppe dove servono azioni più grandi e globali. La mia singola azione è solo una singola azione mossa dal mio panico per il pianeta. Ma contare serve a me. Serve al panico per il pianeta per non disperarsi o nascondersi. Serve a me per mantenere forte il legame che c’è tra il dentro e il fuori. Il legame che c’è tra il mio panico e quello che si può fare in più. E il legame lo rafforzo con azioni che mi ricordano che cosa faccio e di cosa mi importa.
E qui entra in gioco la seconda lista, che non penso si possa chiamare davvero una lista. La seconda lista dice al panico solo una cosa: di usare le parole non solo per sé stesso. Di usarle prima per capire e per dare i contorni e per non sprofondare. Ma poi, con quelle parole, andare a parlare con le persone. Attivarsi. Entrare in contatto. Mettere in moto la sua scomodità per contattare la scomodità di altre persone. Avevo già parlato delle crepe che porta il panico del pianeta e del suo desiderio di parlare con le altre crepe.
Il proposito di questo vero inizio dell’anno per il panico è quello di far parlare davvero le crepe. Anche se gli fa paura.
Anche se è bravo con le parole ma le dimentica tutte quando le deve dire.
[Immagine in evidenza: VasjaKoman]
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