Spesso il mio panico non mi sta simpatico e provo a farmelo passare. A volte mi sta pure simpatico ma provo a farmelo passare lo stesso, perché non sta tanto simpatico agli altri. Però in queste ultime settimane ho capito che in alcuni casi il mio panico non riesce ad andare via. Il panico che proprio non riesce mai ad andare via e vuole restare sempre con me è il panico per il pianeta. O panico per il clima. O per il cambiamento climatico, che poi forse sarebbe meglio chiamare crisi climatica. Ma panico per il pianeta è il nome che mi piace di più, perché sembra anche una cosa verde e carina.
Ho già parlato di come questo panico influenzi molte mie scelte quotidiane, ed è scritto qui.
Però di recente queste mie scelte quotidiane non sono bastate a placare il panico.
Non è bastato trascinare barattoli vuoti al negozio sfuso per riempirli di qualunque tipo di cosa (il posto sfuso in questione è il Negozio Leggero e lo consiglio vivamente a tutti, anche se ahimè non ricevo una percentuale sui clienti che gli mando, che a quest’ora sarei già diventata ricca). Non è bastato smettere quasi del tutto di comprare le cose che sono solo in plastica. Non è bastato non comprare vestiti, o comprarli solo di seconda mano e sostenibili. Non è servito resistere ai caffè delle macchinette, perché i bicchieri sono in plastica. Non è bastato evitare di prendere gli aerei e sentire i commenti di mia madre: «Ma mica si può smettere di andare da qualunque parte» (e per mia madre aereo è sinonimo di tranquillante).
Al panico per il pianeta tutte queste cose hanno iniziato a stare un po’ strette. Per vari motivi, credo.
Ha iniziato a leggere articoli su articoli sull’innalzamento della temperatura, estinzioni, scioglimento dei ghiacciai (articoli dei quali capisce, se va bene, quel 50% che basta ad attivarlo). Alcuni autori sostengono che in realtà non si può far tutto e che dobbiamo scegliere con saggezza quali azioni intraprendere per il pianeta e per l’umanità. Ma questo al mio panico non interessa.
Ha visto immagini di canguri che scappavano dal fuoco e di pinguini che cercavano un po’ di ghiaccio. È andato a camminare in montagna e non ha visto neanche un po’ di neve. È uscito con la giacca pesante ed è dovuto tornare a casa per quella primaverile. Si è rallegrato per non provare freddo in bicicletta e poi si è ricordato che era febbraio e si è dispiaciuto.
E non è voluto andare via. Quindi, invece di combattere contro di lui (perché tanto lui vince sempre), ho deciso di tenermelo. L’ho portato con me al Negozio Leggero e in giro in bici e a passeggiare nella montagna senza neve. Gli ho suggerito di rileggere gli articoli inquietanti, per arrivare magari a capirne il 60%. Gli ho detto panico mi dispiace che mi sento tanto impotente. Che mi sento che potrei fare tanto ma poi faccio troppo poco. Che vorrei stravolgere tutti i miei piani ma poi non ci riesco tanto bene. E il panico non mi ha dato una soluzione, perché lui è il panico, e il panico non trova soluzioni.
Il panico crea fratture dove prima c’erano finte soluzioni. Il panico ti dice: guarda qui, tutto sembra essere liscio ma dovrebbe esserci una crepa. E il panico crea la crepa.
Ho quindi iniziato ad accettare di stare in questa crepa. E ho pensato che non sono la sola a possedere un panico per il pianeta. E che quindi il mio panico può parlare con quello degli altri. E che anche gli altri panici scavano delle crepe, probabilmente. E quindi si possono far comunicare queste crepe. Stare dentro alle crepe. E magari, mentre si sta dentro alle crepe, si impara a capire come affrontarle. Si crea un’enorme conversazione tra tutti i panici del pianeta e magari se tutte le crepe si uniscono ne esce fuori qualcosa.
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