Il panico e il non sapere dire di no

Ho iniziato ad allenarmi a dire di no. È un allenamento difficile e meraviglioso. Le rarissime volte in cui riesco a dire no mi sento gigante.

Io non so dire di no. Anche quando lo dico, in realtà lo dico sotto forma di sì.

Oppure dico no, ma poi mi sento talmente cattiva che dico subito sì per rimediare, anzi, dico un sì ancora più grande per cancellare quel no che ho osato pronunciare.

L’altro giorno riguardavo con A una puntata di Friends. Ecco, la mia strategia è più o meno simile a quella attuata da Chandler qui.

È proprio chiudere con il “no” che mi sembra impossibile, forse perché, se qualcuno lo fa con me, penso che non vorrà vedermi mai più.

Quando dico no sotto forma di sì, invece, suona come una sorta di vago assenso che spero cada nel vuoto. Se è troppo vago, però, mi sembra brutto, pare finto. Allora lo rinforzo un pochino e diventa un sì pieno.

Poi giro per casa afflitta pensando a come rimediare.

Ci sono fondamentalmente due soluzioni: andare all’impegno che ho preso oppure sperare che accada un imprevisto. Questo secondo caso può essere leggermente aiutato. Ho deciso, infatti, che gli imprevisti si possono anche creare. Alterando forse la loro natura di imprevisti, certo, ma se sono abile riesco a convincermi che gli imprevisti siano nati dal nulla, non da me. Perché il problema, ovviamente, non è convincere l’altro, ma convincere me e il mio senso di colpa in agguato. Per convincere l’altro basterebbe una bugia. Ma io non riesco a dire le bugie.

Mi sono tanto impegnata nel corso degli anni per riuscire. Sono migliorata, credo, ma molto poco. A volte non riesco neanche a sopportare che gli altri sappiano da me una cosa che in quel momento era vera ma che ora non lo è più, e quindi, tecnicamente, è una bugia. Mi dà talmente fastidio che sono costretta ad avvertirli subito del cambiamento, anche se è una notizia che non li riguarda particolarmente.

La mia insofferenza per le bugie si traduce in una totale incapacità di assistere a storie in cui ci siano dei malintesi. A quanto pare in molte storie ci sono i malintesi. In un libro devo resistere, in un film o in una serie, io non li guardo. Copro occhi e orecchie e, visto che non basta, canticchio per non sentire. Chiedo ad A di dirmi quando il malinteso è stato risolto (se è riuscito a sentire nonostante il mio rumore), così posso tornare a guardare.

Per evitare le bugie, a volte un motivo per dire di no può essere la stanchezza. Fino a qualche anno fa la stanchezza doveva essere estrema, totale, doveva essere quasi malattia (e non sempre era sufficiente: ricordo sere in cui mi sono addormentata ancora prima di uscire e poi mi sono risvegliata, o film al cinema in cui ho dormito dal primo minuto). Adesso basta una stanchezza moderata. Adesso, per fortuna, la mia voce che vuole dire no a volte vince sul senso di colpa che vuole dire sì.

È un duello tra due tipi di panico: quello che ha paura di essere cattivo e di rimanere solo, e dice sì, e quello che non vuole ritrovarsi in una situazione in cui non vuole stare, e dice no.

Una cosa che ho capito è che, spesso, facendo vincere il primo, si creava un corto circuito: il secondo (il panico che non vuole ritrovarsi in una situazione in cui non vuole stare) si angosciava, mentre il primo (quello che non vuole essere cattivo) in realtà si sentiva cattivissimo, perché si trovava in un posto desiderando di andare via.

Quindi ho iniziato ad allenarmi a dire di no. È un allenamento difficile e meraviglioso.

Le rarissime volte in cui riesco a dire no sono felicissima. Mi sento potente. Mi sento gigante. Mi sento anche cattiva.

Quando gli altri mi dicono di no sono ancora più felice. Li apprezzo molto. Li trovo coraggiosi.

Loro dicono: “Mi dispiace tanto” e io li rassicuro che non importa, non c’è problema, capisco perfettamente. Penso: “Loro hanno detto di no, posso dire di no anche io”.

[Immagine in evidenza: illustrazione di Julien Posture]

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