Qualche settimana fa mi sono messa a cercare la mia a giacca a vento verde. La temperatura sembrava un po’ meno calda e avevo paura di prendere freddo in bicicletta.
Non ho trovato la giacca, sono uscita con una felpa leggera in una mattina più fredda delle altre e tre giorni dopo mi è venuta l’influenza.
Poi quell’istante di freddo è subito andato via, lasciando al suo posto dei giorni di inizio novembre in cui A. e io abbiamo sudato quando siamo andati a correre prima di pranzo.
Ma non parlerò della temperatura anomala, perché è un argomento che mi rende molto triste e che mi ha fatto sviluppare una profonda avversione per chiunque dica: “Un caldo così non si è mai visto”. Quando lo sento dire, io resto in silenzio. Mi limito ad invocare l’arrivo del freddo mentre vado in bicicletta e vengo colpita dall’aria calda.
Due giorni fa sono stata addirittura contenta quando, uscita dalla casa di un bambino a cui avevo fatto lezione, sono stata bagnata dalla pioggia, perché l’aria era diventata più fredda.
Ma non parlerò di questo. Parlerò della mia giacca a verde, che ho ritrovato.
È una giacca che ho da quando avevo sedici anni. L’ho comprata un pomeriggio d’autunno, credo, ma potrebbe anche essere un pomeriggio di gennaio.
Se andassi di nuovo a rileggere tutti i miei vecchi diari potrei scoprirlo, perché credo di aver parlato di questo momento. Era stato, infatti, un momento insolito: ero uscita con una mia amica per andare a comprare delle cose durante il pomeriggio di un giorno della settimana. Questo dettaglio, in effetti, mi spinge a pensare che fosse un pomeriggio di inizio autunno, perché, altrimenti, non mi spiego come potessimo non avere compiti per il giorno dopo.
Io, in genere, non uscivo mai, soprattutto di pomeriggio e soprattutto per comprare dei vestiti.
Quel giorno, invece, la mia amica Irene mi aveva trascinato fuori di casa e accompagnato a comprare una giacca a vento, perché non ce l’avevo. Forse avevamo comprato qualcosa anche per lei, non mi ricordo. Ma ricordo che avevamo passeggiato e chiacchierato, e poi avevamo preso l’autobus per tornare a casa. E, una volta a casa, era quasi l’ora di cena. Tutto il pomeriggio era trascorso così, girando e chiacchierando. Questo mi aveva fatto venire un po’ di paura, perché non ci ero abituata.
Si poteva passare un pomeriggio così, senza tanti sforzi? Era permesso? Non era sbagliato? Irene, però, pareva tranquilla. Era andata a casa sua e mi aveva salutato. Io ero rimasta con questa strana sensazione di fastidio, con questa idea di aver sprecato il mio tempo.
Al liceo ero ossessionata dal concetto di perdere tempo. Forse, a volte, ero io a perdermi e a non ritrovarmi più, impegnata come ero a guardare l’orologio. Ero impegnata a seguire orari e liste e non mi chiedevo se le cose scritte sulle liste fossero quelle che volevo.
Ho iniziato a scrivere questo testo mentre facevo colazione. Il porridge era troppo liquido e, quindi, bollente, e non riuscivo a mangiarlo. Tra una cucchiaiata e l’altra, attenta a non bruciarmi, ho iniziato a scrivere velocemente. Scrivevo di fretta, “perché sennò”, mi sono detta “perdo tempo”. A volte lo sento ancora, il mostro del tempo, che si insinua nei miei movimenti e nei miei pensieri.
Quando ero più piccola, il mostro era dappertutto. Al liceo, in particolare, dettava le cose da fare nelle mie giornate. Mi imponeva la sua presenza, impedendomi di pensare ad altro. Se seguivo lui non c’era niente che potesse entrare troppo in profondità e scardinare il suo ordine.
Se qualcosa avesse cercato di penetrare le ferree regole del tempo, avrebbe trovato un muro pronto ad accoglierlo. Se un’idea arrivava all’improvviso, quando le liste del tempo erano già chiuse, tutto diventava più difficile. In genere respingevo l’idea nuova. Se era particolarmente bella, però, ero tentata di accettarla. A quel punto, però, l’ordine del tempo sarebbe venuto meno.
Forse è per questo che ricordo il momento della giacca verde. È stato un momento in cui sono riuscita a uscire dal tempo. Lui mi ha avvinghiata subito, appena sono tornata a casa e mi sono sentita persa e inutile, appena ho pensato: “Ho buttato il mio pomeriggio”.
Ma in quel sentirmi sperduta c’era anche altro. C’era anche lo stupore nel rendermi conto che ero sfuggita al tempo ed ero sopravvissuta. Era stato un bel pomeriggio. Mi sentivo un po’ inutile, ma anche leggera, come se non mi venisse chiesto altro che questo, passare un pomeriggio a cercare una giacca a vento.
Mentre scrivevo mangiando il porridge, ad un certo punto ho dovuto rallentare.
Andando veloci e pensando al tempo che si spreca non si scrive mai niente. Per scrivere è necessario scordarsi del tempo. Lui può continuare ad esistere fuori, nella cornice esterna, ma dentro scompare. Dentro c’è solo un salto. Per fare questo salto ho bisogno di scordarmi del tempo. O forse è il contrario: scrivere mi permette di scordarmi del tempo. Se non lo facessi non potrei passare minuti su minuti seduta con la penna, ferma. O seduta a pensare e basta. Se pensassi a tutto il tempo che ci impiego non farei mai questo salto perché, molte volte, sembra un salto nel nulla.
***
Ogni quindici giorni, pandipanico è ospitata sulle pagine di AWARE, ogni volta con un panico nuovo, nella nostra sezione dedicata al tema salute mentale. Qui il blog: https://pandipanico.blogspot.com/.
Clicca sulla pagina “autrice” in alto per leggere i precedenti articoli!