Alla fine della quinta elementare una mia amica e io avevamo passato un pomeriggio a riempire un quaderno con attività e consigli per l’estate. Non mi ricordo che cosa avessimo scritto di preciso e non ho ancora ritrovato il quaderno. Credo sia solo una questione di tempo, perché quest’estate mi sono dedicata alla lettura completa dei miei diari.
Mi ricordo però che eravamo state tutto il pomeriggio a disegnare, scrivere, pensare. Tornando a casa, avevo costretto mio padre a correre alla cartoleria sotto casa prima che chiudesse per comprare un quaderno in cui mettere in pratica quello che avevamo deciso. Mi ricordo come mi sentivo mentre ero seduta sul pavimento della camera della mia amica, in mezzo a fogli e a colori, con i pantaloncini corti che mettevo per una delle prime volte, quell’anno, perché era l’inizio dell’estate, la prospettiva di un’estate infinita davanti a me e il fermento, l’entusiasmo di iniziarla costruendo qualcosa e, nello specifico, una delle cose che a me piaceva (e piace) di più: fare programmi.
Ad un certo punto avevo detto alla mia amica: «Poi lo facciamo anche l’anno prossimo». Lei mi aveva guardato stupita e mi aveva risposto categorica: «L’anno prossimo faremo la prima media, non si potrà più».
È stato un avvertimento di cui all’inizio non ho capito la logica. Mi sembrava ci fosse qualcosa che mi sfuggiva. Non capivo cosa. Ma la forza dell’avvertimento è continuata, forse proprio perché non riuscivo bene ad afferrarlo.
Mi ha accompagnato in prima media. Mi ha accompagnato in un nuovo panico che non sapevo esistesse: il panico della crescita. E il panico della crescita in realtà era molto legato a un altro panico: il panico di doversi comportare da femmina o, più che altro, da quello che gli altri si aspettano che sia il modo di comportarsi di una ragazzina. E io non ci avevo mai pensato al fatto di essere femmina. Forse un po’ pensavo al mio non volerlo essere. O, comunque, al mio scegliere di non dargli importanza.
In quinta elementare mi vestivo solo da maschio e i miei vestiti preferiti erano quelli che mi regalava un mio compagno di classe, al quale non entravano più. In cortile giocavo a calcio, mentre a casa continuavo ad invitare le mie amiche e a giocare con le bambole, perché era il mio gioco preferito. Non mi sembrava che ci fosse una contraddizione. Alcune cose considerate da maschi erano belle, altre cose considerate da femmine anche. Mi sembrava solo sensato scegliere quello che preferivo in tutti e due gli ambiti. Trovavo alcune cose per le femmine stupide, e il colore rosa il colore più insulso e noioso al mondo. Colore che, tra l’altro, sta malissimo con i miei capelli rossi.
(Mia madre era d’accordo con la cosa e quando avevo un anno, mentre ero nel passeggino, si era sentita dire «Che bel bambino» da una signora in farmacia: ero vestita di azzurro, che sta bene con il rosso dei miei capelli. Mia madre aveva risposto: «Veramente è una bambina», e allora la signora le aveva risposto: «Che anticonformista, lei». E se ne era andata).
Alle medie invece sembrava strano non pensare alla faccenda di essere una femmina. La faccenda di crescere e di essere una femmina sembravano andare insieme.
Mi facevano venire il panico le cose nuove da femmine. Andare a comprare i vestiti. Truccarsi. Mettersi gonne corte e vestiti attillati.
Io i vestiti attillati non li volevo mettere perché il mio corpo non lo volevo vedere. Il mio corpo mi stava tradendo diventando un corpo da grande. E allora io mi facevo comprare i vestiti da maschio.
Una volta, durante un’ora di buco in cui un professore di educazione fisica ci aveva portati in cortile, io avevo passato tutto il tempo ad acchiappare le cavallette e a liberarle: era un gioco che facevo sempre in montagna con mia madre e mia sorella. Poi le facevamo vedere a mio padre, ma a lui facevano schifo. Anche alle mie compagne di classe facevano schifo e mi dicevano di stare lontana.
Ad un certo punto, però, avevano iniziato a ridere e io avevo chiesto: perché ridete? Perché il professore aveva commentato, guardandomi: «Le altre ragazze danno la caccia ai ragazzi, lei dà la caccia alle cavallette». Io avevo sentito gli occhi tremare dietro agli occhiali e le mie guance diventare dello stesso colore dei capelli, ma qualcosa mi aveva detto che era meglio non dare soddisfazione al professore: avevo continuato ad acchiappare le cavallette. Per acchiapparle bisognava tenere gli occhi bassi e nessuno mi poteva vedere bene la faccia.
Sembrava che educazione fisica fosse sempre il terreno migliore per confrontarsi con il panico di dover comportarsi “da femmina”. Un’altra volta, con un’altra supplente, eravamo andati a giocare a tennis. Una pallina era andata oltre la rete che limitava il campo, dove c’erano dei cespugli. La rete era bucata e quindi si poteva andare dall’altra parte per recuperare la pallina. Qualche mio compagno era andato e anche io mi ero avvicinata, pronta a intrufolarmi nella rete. Mi sembrava una piccola avventura degna di un libro. Ma la professoressa mi aveva fermato. A me aveva detto: «Tu no». Io ero stata ferma per qualche secondo e poi ero andata lo stesso. Quando la sera, arrabbiatissima, lo avevo raccontato a mia madre, lei aveva commentato: «Forse aveva paura che ti facessi male. Voleva proteggerti».
A me questo “proteggerti” era risuonato nelle orecchie come qualcosa di molto aggressivo. A me questo “proteggerti” sembrava qualcosa che invece faceva male. Non sapevo bene dove, ma da qualche parte faceva male.
[Immagine in evidenza: dal web // se conoscete l’artista segnalateci i credits]
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