Un problema del panico è che quando arriva è già troppo tardi per mandarlo via.
Bisognerebbe capire prima che sta arrivando e cercare di fermarlo.
Ma il punto del panico è proprio che lui non avvisa prima. Non dice: “Ecco, sono il panico e sto arrivando.” Manda solo dei piccoli segnali che andrebbero interpretati.
Io, però, dopo anni e anni di esperienza, ancora non riesco a capirli.
Forse perché, in realtà, non voglio mai pensare che stia arrivando il panico. Penso ogni volta di averlo sconfitto per sempre. Penso sempre che sia una gara tra me e lui, in cui vince il più forte, in cui uno dei due deve crollare. Ma con il panico non funziona così. Se capisce di stare in una gara, il panico sa essere spietato.
Tre giorni fa ho passato la mattina a fare tante cose. Non ricordo bene quali. Me ne ricordo qualcuna. Mi ricordo soprattutto la fretta con la quale le facevo, una dopo l’altra, una dopo l’altra. E intanto guardavo l’orologio e mi dicevo: “Ho ancora tempo, ho ancora tempo”. Facevo un’altra cosa e mi lamentavo per non averne fatta un’altra. Poi appena avevo finito di farla dimenticavo di averla fatta e dimenticavo anche il perché.
Io parlo sempre troppo veloce, da sempre. Me lo dicono tutti. Parlo troppo veloce forse perché ho paura di non riuscire a dire tutto. Forse perché ho paura di essere interrotta. O forse solo perché mi si accavallano i pensieri, così come si accavallano le cose che faccio. Ne faccio una dopo l’altra, velocemente.
E non sento il panico che arriva. Tre giorni fa non l’ho sentito. Avrei potuto capirlo, che quando vado di corsa e non capisco che cosa sto facendo il panico si prepara ad arrivare, però è un po’ come quando parlo velocemente: a me sembra di parlare normalmente e capisco di parlare velocemente solo quando gli altri non hanno capito nulla di quello che ho detto.
Tre giorni fa, dopo la mattina piena di cose che non ricordo, sono andata in piscina con mio padre. Sono salita nello spogliatoio. Ho tirato fuori l’accappatoio e l’asciugamano, le ciabatte, la crema solare che metto anche se è ottobre perché ho sempre paura del sole, il costume e la cuffia. Solo che la cuffia non c’era. Ho guardato meglio. Ho rivoltato l’intero zaino. Nessun segno della cuffia, ma solo un paio di mutande blu buttate nello zaino, che dovevano essere stese sullo stendino accanto alla cuffia e che io ho preso al posto della cuffia.
Sono entrata nel panico. Che poi, non so se è proprio quello che succede, entrare nel panico. La sensazione è più che altro che il panico arrivi da qualche parte, o meglio, che il panico si palesi, perché era già arrivato e stava nascosto nel mio corpo da qualche parte. Il panico si fa sentire e io non riesco più a sentire nient’altro, neanche la mia testa che cerca di fare ragionamenti razionali e sensati. La mia testa viene spazzata via dal panico.
Un minuto dopo ero sulla terrazza dello spogliatoio, tremante e piangente, accucciata in un angolo, con la signora addetta allo spogliatoio che mi guardava comprensiva e mi chiedeva: “Hai un attacco di panico?”. Io continuavo a tremare e a non riuscire a respirare bene e lei mi diceva: “Togliti la mascherina, respiri meglio” e io la toglievo ma poi mi veniva l’ansia e la rimettevo.
Il punto non era la cuffia, non era la piscina, non erano tutte le cose che avevo fatto la mattina senza prestare attenzione al fatto di starle facendo, non era il mio essere andata in piscina dimenticando una cosa fondamentale perché non prestavo attenzione a quello che stavo facendo, non era il fatto che sarei dovuta tornare a casa senza poter fare quello che volevo, non era che a casa mi aspettava un pomeriggio con una lezione dopo l’altra e questo mi faceva paura. Non era nessuna di queste cose, erano tutte queste cose insieme. Si erano incastrate tra loro in un modo strano e non mi facevano più pensare. Si erano ingarbugliate e io sentivo solo il panico, insieme alla signora gentile che mi ripeteva: “Non ti preoccupare, adesso passa”. E io non sapevo che dirle o che fare e mi sentivo minuscola.
Sotto alla terrazza, accanto alla piscina, è comparso mio padre, che arrivava dal suo spogliatoio pronto per nuotare. Mi ha visto vestita e nel panico. Io sono scesa dalla terrazza. La signora è scesa con me, anche se non ricordo lei che scendeva con me, ma ricordo che quando eravamo di sotto c’era anche lei. Io mi sono accucciata per terra. Ho detto della cuffia. Mio padre ha esclamato: “Ah, ma si può comprare qui.” E quando l’ha detto ho realizzato che lo sapevo anche io. Ma la mia testa era stata messa fuori uso dal panico.
Nella cuffia dimenticata il panico ci aveva visto tante cose. Il panico aveva usato la cuffia dimenticata, un mio errore di disattenzione, per fare il suo ingresso trionfale e ricordarmi che lui era in agguato dalla mattina, dietro a tutta la mia fretta. E appena aveva avuto un’occasione, lui era arrivato. La cuffia era diventata tutto quello che non so fare, tutto quello che sbaglio, tutti i motivi per i quali io mi dico di non andare bene. Il panico aveva trasformato tutte le cose intorno a me in un buco nero senza uscita. Non perché non ci fosse un’uscita possibile, ma perché mi impediva di vederla e di trovarla con la mia testa.
Ho continuato a stare accucciata, tremante, e mi rendevo conto di essere sempre più minuscola, come se fossi diventata di nuovo una bambina e gli altri dovessero prendersi cura di me. La signora gentile ha detto che sarebbe andata a prendere la cuffia, ma io continuavo a tremare. Ha detto: “Mi sa che ha il panico” e mio padre ha risposto: “Sì sì, lo so.” Io ho detto: “Ho il panico” e lui ha risposto: “Conosco il tuo panico”.
Mio padre mi ha chiesto se volevo nuotare o andare via. “Basta che me lo dici prima che entro in acqua, che poi mi devo asciugare”. A me è venuto da ridere e ho detto che avrei nuotato.
Io e la signora siamo risalite nello spogliatoio. Lei mi ha detto: “Mia nipote ha gli attacchi di panico. Li conosco bene. Non ti preoccupare”. “Scusi”, ho risposto io. “Non ti devi scusare. Ora prendo la cuffia”.
Ho nuotato tanto e velocemente, perché muoversi è una cosa che fa bene al panico. Fa bene a farlo andare via. Ho guardato il sole, mentre nuotavo. Ho osservato il mio essere minuscola. Ho osservato il panico, che era ancora da qualche parte. Ho osservato il mio non essere più di fretta. Ho riconosciuto che il panico e io siamo due cose che non possono fare la lotta.
Il panico cerca di dirmi quello che io non riesco a notare.
[Illustrazione: Gillian Levine]
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