Nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) i casi di contagio e i decessi dovuti al Coronavirus sono pochissimi. Le attività economiche, sociali e commerciali proseguono nella normalità. Ciononostante il presidente Tshisekedi ha imposto la chiusura di tutte le scuole e un coprifuoco serale che lascia campo libero alle scorribande delle milizie regolari. Da settimane gli insegnati non sono pagati e milioni di studenti sono stati costretti a tornare al lavoro nei campi o nelle miniere artigianali. Nella RDC la pandemia non è una minaccia per la salute. È una minaccia per la cultura e la sicurezza delle persone.
“Gli effetti della pandemia non sono uguali per tutti”.
Questa è una delle frasi divenute cult negli ultimi mesi per sottolineare il dato di fatto chiaro e lampante che, mentre il virus è un pericolo condiviso da tutta la popolazione esposta, le conseguenze in termini economici sono di certo diverse a seconda della condizione sociale preesistente.
Catturati nel vortice di una comunicazione martellante sul tema si rischia però di perdere di vista un altro dato altrettanto chiaro e lampante: il coronavirus non è attualmente una minaccia omogenea in tutto il mondo.
Esistono infatti paesi e continenti dove il numero di contagi e decessi causati dal Covid sono infinitamente bassi rispetto alla popolazione complessiva o comunque non rappresentano un dato allarmante se affiancati a quelli relativi a una manciata di altre patologie con una carica infettiva altrettanto preoccupante.
Il problema in questi paesi, generalmente già caratterizzati da un contesto sociale e politico che potremmo con un eufemismo definire fragile, è l’utilizzo che si fa del fenomeno mediatico agganciato alla pandemia.
Toppo spesso si assiste infatti all’utilizzo della situazione sanitaria mondiale come giustificazione di facciata per una repressione istituzionalizzata della cultura e dello spirito critico.
Uno dei casi più emblematici in questo senso è quanto sta avvenendo nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), paese che si fregia del termine democratica nel proprio appellativo da più di vent’anni e che ne ha dimostrato la perfetta corrispondenza alla realtà venendo governata da uno stesso presidente negli ultimi diciotto.
Ricca di minerali tanto quanto povera di democrazia, la RDC rappresenta il secondo stato africano per estensione, grazie a un’area geografica pari a quella di Norvegia, Svezia, Germania, Francia e Spagna messe insieme, e il primo paese francofono al mondo per popolazione, contando più 84 milioni di abitanti.
Secondo i dati ufficiali diramati dal Ministero della Salute e Unicef, i casi di Covid registrati nel paese dall’inizio del 2020 sono equivalenti a poco più del numero degli abitanti di Recanati (21.301) e i decessi accertati 640, ovvero una manciata in più del numero di morti da Coronavirus registrati in Italia tra novembre e dicembre 2020 ogni giorno.
Si dirà che il problema è la mancanza di test e tamponi affidabili.
Vale la pena allora ricordare che nessuna critica simile è mai stata sollevata per i dati collegati a patologie presenti nel paese da qualche decennio a questa parte e che fanno registrare livelli di contagio enormemente più alti. Giusto per rendere l’idea, nella RDC i decessi per malaria nel 2020 sono stati 45.000 (di cui 38.000 sotto i 5 anni) e le persone morte per Ebola (sì esiste ancora un focolaio di Ebola nel paese, una infezione altamente contagiosa che fa registrare un tasso di mortalità del 70%) nello stesso anno sono state più di 2.200.
In verità il sistema di monitoraggio e contrasto alla diffusione del Coronavirus nel paese è gestito da una task force internazionale capitanata da Unicef e l’OMS, organizzazioni che garantiscono livelli di copertura e dettaglio ben al di sopra dei tipici standard centroafricani. Grazie alle equipe messe a disposizione, i laboratori pubblici sono aperti per i test nelle principali città del paese ed eseguono quotidianamente tamponi molecolari RT-PCR per meno di 30 dollari con risultati in 24 ore. Gli standard internazionali garantiti nelle operazioni garantiscono capillarità e affidabilità.
Allora perché il numero di casi rappresenta meno dello 0,025% della popolazione totale (quando in Italia siamo ben oltre il 4%, un dato 160 volte superiore)?
Non si sa bene ed è triste rilevare che la ricerca scientifica internazionale sembra essersi soffermata molto poco ad indagare le cause del dato. I motivi possono essere svariati, da un’aspettativa di vita che in media non supera i 50 anni alle temperature che per tutto l’anno si aggirano stabilmente tra i 24 e 28 gradi, fino a una possibile resistenza biologica mediamente superiore al contagio, dovuta allo stile di vita indubbiamente più sportivo e dinamico.
Non sono chiare le ragioni, i dati sicuramente sì.
In un paese dove si registrano questi numeri e in cui gli spostamenti interni sono già limitati da una povertà latente lunga decenni sembrerebbe impossibile anche solo pensare che il governo possa disporre delle misure di contenimento in stile europeo.
Invece ecco la sorpresa: il 18 dicembre 2020, poco prima delle vacanze natalizie, con un provvedimento sbalorditivo tanto nelle disposizioni quanto nelle ragioni, il presidente Félix Tshisekedi “al fine di contenere la seconda ondata di coronavirus” ha decretato un coprifuoco generale su tutto il paese dalle ore 21 fino alle 5 del mattino, nonché la chiusura sine die di scuole e attività culturali. Niente di più, niente di meno.
Mercati sovraffollati, uffici brulicanti di persone, bar, chiese, ristoranti; tutto ha potuto continuare la propria vita frenetica e straripante nel classico stile centroafricano, mentre gli unici luoghi pubblici soggetti a una chiusura draconiana sono state le fragili palestre dell’educazione e dell’arte.
Da allora, a distanza di più di un mese, niente è cambiato.
Sembra ultroneo dover specificare che nella RDC, dove il 70% della popolazione vive senz’acqua corrente ed elettricità, figurarsi una connessione internet, non è nemmeno lontanamente contemplabile l’ipotesi di una qualsivoglia didattica a distanza su larga scala.
Questo è significato il collasso inevitabile delle già fragili strutture formative del paese, nonché una crescita verticale dei livelli di insicurezza nelle principali metropoli.
Milioni di bambini e bambine nelle aree rurali sono stati richiamati dai genitori al lavoro nei campi, nelle fabbriche artigianali di mattoni e nelle miniere comunitarie di oro. Sorte non troppo diversa è toccata ad insegnanti e prof: perso il diritto al già magro stipendio da 150 dollari al mese (il concetto di welfare in Congo è lontano da venire) si ritrovano costretti a doversi arrangiare con espedienti di fortuna.
Allo stesso tempo il coprifuoco serale ha lasciato spazio libero alle forze militari, da tempo accusate di corruzione e pratiche istituzionalizzate di violenza. In particolare nella seconda città del paese, Lubumbashi, il numero di casi di abuso perpetrato dalle forze dell’ordine è aumentato vertiginosamente, facendo registrare svariati episodi di violenze anche domiciliari (cercare l’hashtag #Lubumbashi su Twitter per credere).
Sorge quindi spontanea la domanda: perché chiudere e gettare milioni di studenti nel limbo di una ignoranza latente? Perché negare le già poche possibilità di rifocillare lo spirito attraverso l’arte, in un paese culturalmente disastrato dall’esigenza della sopravvivenza? Perché abbandonare le periferie delle città nelle mani di militari corrotti e malpagati?
Sembra di assistere al tentativo maldestro di soddisfare l’esigenza di omogeneità globale facendo un copia-incolla inutile di quanto si sta svolgendo in Europa o negli Stati Uniti, dove la minaccia è terribilmente reale. O, a voler essere obiettivi, siamo di fronte all’ennesima strategia subdola finalizzata a reprimere gli unici strumenti sociali disponibili ai più giovani per creare una coscienza collettiva realmente capace di promuovere indipendenza. Forse si tratta di un mix di entrambe le cose. Non è chiaro.
Quello che è chiaro è che per chi crede che la cultura, lo scambio libero di conoscenza e lo stimolo curioso alla fantasia rappresentino le uniche armi capaci di portare pace in una terra dissanguata e in una società sofferente, vedere chiuse per settimane e settimane senza motivi validi i luoghi sacri di questa fede rappresenta l’ennesima sconfitta desolante.
Utilizzare acriticamente strumenti di contenimento vitali a migliaia di km di distanza, per tamponare un problema nei fatti inesistente, rappresenta la nuova strategia utilizzata in molti paesi africani per reprimere, opprimere e vessare ogni palestra del libero pensiero.
Torna allora alla mente la frase di apertura: “gli effetti della pandemia non sono uguali per tutti”.
“Ndjo vile”, è davvero così. Nei paesi a basso PIL la frase si colora però di tinte e significati diversi. Nella Repubblica Democratica del Congo, ad esempio, la situazione sanitaria mondiale è divenuta il paravento dietro cui affondare l’ennesimo golpe alla cultura e all’indipendenza civile.
Nel silenzio complice e distratto del resto del mondo. Il nostro mondo.
[Immagine di copertina: il mercato della Katuba a Lubumbashi, RDC, gennaio 2021]