Da qualche mese, grazie al servizio civile, ho l’opportunità di occuparmi di carcere, tra l’Italia e il Camerun. Non posso certo considerarmi un esperto nell’ambito, ma ripetuti e simili riscontri delle mie testimonianze, in molte delle persone che le hanno ascoltate, soprattutto nel nostro Paese, mi spingono a raccontare di quella che è forse più di una sensazione.
Operare in carcere non è facile e anche parlarne è molto complicato: a volte ti sembra di dover fare, sembra ironico, l’avvocato del diavolo. Ciò non tanto nel tentativo di perorare l’innocenza di tale persona rispetto al tale reato, ma unicamente nell’affermare la legittimità del rispetto dei diritti umani dei detenuti. Nella percezione comune permane ancora una difficoltà di fondo nel considerarli infatti come persone, in quanto siamo abituati a pensarli come un’unica massa anonima e uniforme: i delinquenti, facili da dimenticare e abbandonare, perché considerati distanti. Altrettanto distante percepiamo l’istituto penitenziario, di cui a malapena conosciamo l’esatta ubicazione nella nostra città.
D’altronde, perché dovremmo conoscere qualcosa che a noi, in quanto brave persone, non riguarda, mai potrà riguardare e di cui nessuno, in televisione o sui social, parla mai?
La prigione è “altro” rispetto a me e se l’occasione di discuterne arriva, ci si può anche permettere un commento, un giudizio, una sentenza. Perché non si parla di noi, ma di loro, che tanto non possono vederci, né sentirci, né risponderci. A volte, quando racconto della galera in Camerun, delle botte e delle catene, dopo un primo accenno di sdegno, assisto a reazioni sentenziose, il cui significato è grossomodo: «un po’ di quel trattamento lì farebbe bene anche qui in Italia, dove invece sono serviti e riveriti» (riassunto e semplificato per pudore). Si vorrebbe così lasciar intendere, non troppo velatamente, la presenza di un sistema penitenziario italiano “a 5 stelle”, in cui probabilmente il limite della privazione della libertà appare iniquo, a confronto di comfort e servizi disponibili. Forse, ancor meno velatamente, si vorrebbe suggerire, ascoltando i crimini perpetuati in altri paesi, di prendere esempio perché, magari, un po’ di tortura in più farebbe bene anche qui.
«La pacchia è finita!», potrebbe esclamare qualcuno, riprendendo uno slogan ahimè non troppo datato.
Ma il carcere, noi, lo con conosciamo davvero? È veramente una pacchia stare in galera? Quante volte ci siamo stati? Quanti detenuti, o ex detenuti, abbiamo ascoltato parlarcene? Probabilmente la nostra conoscenza è limitata, perché noi, brave persone, con delinquenza e illegalità non abbiamo, e non avremo, nulla a che fare. Ma ne siamo così sicuri? Davvero non abbiamo mai infranto la legge? È possibile escludere la detenzione come eventualità nella nostra vita? Potremmo pensare ai pagamenti in nero, alla birra di troppo prima di mettersi al volante o altri piccoli e numerosi esempi “comuni”. Potremmo dire che sì, le tentazioni esistono e qualche sbaglio l’abbiamo commesso tutti, che abbiamo rischiato e ci è andata bene, che le colpe non sono tutte uguali e che un solo errore non basta per far di noi dei delinquenti. Appunto.
«L’uomo non è il suo errore», recitava un altro slogan, ahimè molto meno conosciuto del precedente.
Questo buon cuore e tali discriminanti, che così legittimamente accordiamo quando si tratta di noi, difficilmente entrano in gioco quando parliamo di loro, i delinquenti, quelli a cui “non è andata bene”. Piuttosto, dalla discussione potrebbe emergere più facilmente qualcosa del tipo: «Ok, ho capito, ma se ammazzano tuo figlio tu cosa gli faresti?». Potremmo allora pensare che tra di noi forse c’è qualcuno che un figlio l’ha perso per davvero, ma il fatto che questo qualcuno non abbia sovrapposto il desiderio di vendetta alla propria umanità e alla fiducia nella giustizia non rende meno degno il suo dolore o il ricordo del proprio caro. Mettersi nei panni dell’altro è comunque un buono stimolo alla riflessione, che non va però limitato o inquinato di qualunquismo. Potrebbe valere la pena, ad esempio, misurare le proprie conclusioni pensandoci come genitore del carnefice e non della vittima.
Quali allora le domande e le soluzioni che ci attraverserebbero?
Forse anche solo questo po’ di introspezione può aiutare ad allenarci all’empatia verso una parte di società marginalizzata e non considerata, così come alla presa di consapevolezza dell’urgenza di riforma di un sistema penitenziario fallimentare dal punto di vista civile, economico e sociale. L’inesistenza di un serio dibattito pubblico a riguardo e la sistematica esclusione dai punti centrali dell’agenda politica dei vari governi, non possono indurci all’ennesima semplificazione di un problema in una contrapposizione tra un noi e un loro. In Italia come in Camerun, si tratta infatti di una criticità trasversale a fasce sociali e schieramenti politici, poiché riguarda tutti, non in quanto delinquenti o brave persone…
…ma come esseri umani.