– di Davide Caceffo
La Raccattum band è un collettivo di musicisti composto per metà da persone che vivono o hanno vissuto in strada. Migranti, italiani, senza dimora, persone accolte in strutture di emergenza. Nata nel 2012 a Trento dalla volontà d’includere attraverso la musica, oggi la band festeggia il suo centesimo live. Davide, uno dei fondatori, ci racconta cosa si nasconda dietro questo numero e cosa significhi suonare al fianco di chi vive nella costante incertezza della strada.
Alla fine ci siamo riusciti: il famigerato numero 100 è stato raggiunto, anche se in sordina, così come era cominciato. La centesima volta non è stata San Siro piena da scoppiare ma una casa di riposo con tanti simpatici vecchietti. Un drive-in over 70, visto che sono arrivati quasi tutti con la loro “due ruote”.
Questo numero simbolico (alla fine ha un significato solo per noi) è dato dalla somma di tutti gli sforzi, nel tempo, dei suoi componenti. 100 sono gli appuntamenti esterni al gruppo, molte di più sono state le prove, i km, la benzina ed il gas spesi in nome di un ideale e di una storia da raccontare. Un centinaio le persone passate per la band aperta, sette gli anni di vita, i cui complessivi giorni di impegno col gruppo sforano già nei primi due anni la nostra “quota 100”. Più di 100 le uscite esterne, così come più di 100 sono stati “gli scazzi” e l’impegno profusi, gli applausi del pubblico e l’indifferenza di altri, le volte in cui chi meno ci aspettavamo ci ha capito e le delusioni di chi doveva interessarsene e alla fine se ne “strafotteva” del nostro messaggio.
Essere in una band musicale comporta una certa difficoltà già quando le eccezioni non sono la regola, figuriamoci in una band come la nostra in cui le stravaganze abbondano e le donne scarseggiano (ci sono e sono toste, ma scarseggiano). Basta pochissimo per saltare. Si diceva in questi anni che c’è sempre bisogno di qualcuno che, a turno, faccia la funzione di “discarica psicologica”, di luogo in cui poter vuotare, magari anche solo per il tempo di un ritorno, di una ubriacatura, di uno psicofarmaco, il peso più greve delle vite di alcuni. Perché fortunatamente non tutti sulla strada ci siamo stati, non tutti abbiamo vissuto quelle vite al limite che si sentono nelle testimonianze e nelle rappresentazioni teatrali di profughi che tanto vanno in questo periodo.
Abbiamo cominciato con niente e se tutto va bene contiamo di finire con niente. Non vogliamo lasciare nulla al di fuori del nostro messaggio: non un’associazione viva solo sulla carta ma un ricordo positivo, non una serie di dati ma molti incontri con le persone. L’unico fattore unificante è stato come sempre la musica: non l’uomo, “la persona al centro” o il barbone. La musica che racconta storie, che tocca il cuore delle persone e ti fa sembrare più vicino chi è più lontano.
C’è spazio anche per una piccola polemica, di cui mi assumo la piena paternità, ad eccezione della frase che prendo in prestito da una amica: parliamo davvero di “persona al centro” o talvolta è la “nostra/loro persona al centro”? Mi riferisco in particolare alla scelta di questi ultimi periodi di ridurre le possibilità di inclusione, di cominciare a parlare di nuovo di emergenza freddo e di tutte quelle iniziative che fanno scuotere la testa. Oggi partecipiamo assieme al Punto D’Incontro alla mobilitazione “Invisibili In Piazza” e lo facciamo volentieri perché è il nostro anniversario, mese più, mese meno. E’ vero che la band per statuto interiore non si occupa altro che di musica, lasciando, per necessità, la vita personale (per quanto possibile) al di fuori delle prove ma certe volte tutto il contesto attorno a cui agiamo fa riflettere.
Un diniego di un ricorso può voler dire perdere un cantante, un chitarrista, un percussionista ben integrato, talvolta anche solo un fan che ci viene ad ascoltare occasionalmente.
Eppure succede.
Non avere un riparo per la notte che non sia un dormitorio più o meno attrezzato fa la differenza per sapere se poi l’amico ci sarà o meno alle prove.
Eppure succede.
Un lavoro che non garantisce continuità economica costringe, può costringere alla depressione e a lesinare sui soldi dei trasporti.
E anche questo succede. Più tutta un’altra serie di eventi che minano la già scarsa autostima di alcuni di noi. Vorremmo che non succedesse anche se siamo ben consci che il giorno in cui tutto questo non accadesse più la nostra scorta di successi andrebbe assotigliandosi, non avremmo più canzoni da proporre. Ma non penso succederà. Non temete, penso che resteremo sulla scena ancora per un bel po’…
Però sarebbe bello. E andrebbe bene anche in quel caso. Chi può dirlo? Sette anni e 101 incontri fa non c’avrei scommesso un euro di durare così tanto.
Eppure succede.
[Nota: grazie ad Eleonora per averci fatto scoprire questa splendida realtà di solidarietà e arte resistente, qui un suo articolo da La Paz]