Esiste uno slogan in lingua curda, Jin, Jîyan, Azadî. Significa più o meno Donna, Vita, Libertà. L’avevo appuntato su un post-it tempo fa, finito chissà dove, dopo aver ascoltato la testimonianza di alcune combattenti curde. Donna, Vita, Libertà. Tre parole che formano una concatenazione di concetti tanto più rivoluzionari quanto più s’abbracciano l’un l’altro, restando insieme. Donna, Vita, Libertà. Una sequenza che sa di promessa, di futuro possibile, di rabbia che diventa amore. Oggi mi sono tornate in mente, queste tre parole, mentre leggevo dell’uccisione di Hevrin Khalaf, Segretaria generale del Partito futuro siriano, attivista per i diritti umani e femminista. Hevrin è stata ammazzata il 12 ottobre 2019 sull’autostrada M4 che da Ras al-Ayn porta a Qamishli. Una vera e propria esecuzione a freddo da parte di uno squadrone di miliziani filo-turchi, inizialmente attribuita ai terroristi dell’Isis.
A me queste definizioni poco importano, in fondo. Vero, occorre dare il giusto nome a cose e persone, ma è proprio per questo che gli uomini che hanno ucciso Hevrin, oltraggiato il suo corpo e diffuso in rete il suo strazio, meritano l’appellativo di terroristi, così come l’uomo che stanno appoggiando e che li protegge da Ankara, Tayyip Erdogan, impegnato in una nuova operazione militare nel nord-est della Siria per “ripulire” la zona dalla “minaccia” curda e per permettere il ritorno in patria (leggi, liberarsi) dei profughi siriani. Quella stessa terra che proprio il popolo curdo ha contribuito a liberare dal sedicente Stato Islamico. Quella stessa terra che ha visto nascere l’esperienza del Rojava e di Kobane, fari accesi in direzione di un mondo diverso che – allora sì! – forse è possibile davvero costruire e che oggi rischiano invece di spegnersi per sempre.
Ed è proprio la decisione di Ankara che Hevrin Khalaf aveva commentato pubblicamente il 5 ottobre scorso, a Qamishli, denunciando le politiche del Presidente Erdogan e ricordando come l’ennesimo atto di forza avrebbe ancora una volta impedito di trovare una soluzione definitiva alla crisi siriana. Hevrin che era impegnata in prima linea soprattutto per i diritti delle donne, Hevrin che credeva nel dialogo e nella convivenza pacifica tra curdi, arabi, siriani, cristiani e musulmani. 35 anni, sono troppo pochi per morire, ma abbastanza per lasciare un segno tangibile nel mondo, una ferita di vergogna che arriva – o almeno dovrebbe – fin qui, dall’altra parte di mondo sfiorata appena da queste notizie, il tempo di condividere indignati il video shock del cadavere dell’attivista vilipeso tra la polvere, smuovendo così uno teatro del terrore che poco ha a che fare con la consapevolezza della posta in gioco e tanto con altre emozioni, molto meno nobili.
E poi la retorica della donna indifesa e ingenua vittima suo malgrado della brutalità del grande gioco della guerra. Si era invischiata forse in faccende più grandi di lei, poverina. Lei, angelo offeso e umiliato, lei dal sorriso dolce e folti capelli bruni. Donna, Vita, Libertà, ripeto. Le donne hanno dato già troppo perché questa narrazione – per quanto nobile negli scopi – possa essere ancora adoperata. Hevrin è stata uccisa da uomini senza onore per il suo impegno politico e le sue idee. Era una donna consapevole che aveva deciso da che parte stare, cosciente di rischiare la vita per questo. E non è la sola. Le donne curde sono state in prima linea dal giorno X, combattendo per scelta o necessità, al fianco dei loro compagni e amici o al posto loro. La Rivoluzione del Rojava ha fatto tremare il mondo su più fronti, andando ad intaccare le fondamenta di una società patriarcale in cui i rapporti di potere alla base dell’idea di Stato-Nazione venivano (e vengono) replicati e applicati alla sfera privata e ai rapporti tra i generi. Protagoniste indiscusse le donne, presentatesi all’appuntamento rivoluzionario come soggetti politici consapevoli e autodeterminati e portatrici di uno sguardo altro, quello sguardo “di donna” che viene richiamato proprio da quel motto, Jin, Jîyan, Azadî.
Il corpo della donna diventa allora di nuovo terra di vendetta, strazio e conquista. Luogo simbolico e materiale in cui imprimere due volte il marchio del potere e ristabilire l’ordine messo in discussione. Per questo il popolo curdo ha imparato a guardare e fare la rivoluzione “con occhi di donna”, come spiega Ozlem Tanrikulu, il che significa intrecciare le lotte, scorgere come le diverse forme di oppressione siano tutte connesse tra loro. Lo sanno bene le donne del Sud del globo, oggi in prima linea ovunque non solo per i propri diritti, ma per quelli di tutte e tutti, contro Stato e Uomo Padrone, contro capitalismo e patriarcato, neocolonialismo e neoliberismo, combattendo lo sfruttamento e il controllo dei loro corpi e territori. Combattendo per un’autonomia che si traduce in nuove forme di stare al mondo e creare comunità, nuove esperienze politiche ed esistenziali, alla ricerca di una una democrazia costruita sui valori della reciprocità, del rispetto, della pacifica convivenza, del confederalismo. Tutto ciò è riassunto perfettamente nell’esperienza rivoluzionaria del Rojava, non la rincorsa verso uno Stato Nazione, ma l’aspirazione ad una confederazione tra popoli, alternativa assoluta a qualunque altro sistema esistente oggi al mondo, «avanguardia di una nuova vita», come afferma la stessa Tanrikulu.
Perdere tutto questo significa rinunciare alla possibilità di un mondo differente. Significa perdere quello “sguardo di donna” che animava fieramente il volto di Hevrin Khalaf e di tutte le combattenti e i combattenti cadut* per la difesa di quel sogno di libertà condivisa.
Gli occhi di Hevrin ora sono chiusi, ma il suo sguardo continua ad illuminare la strada tracciata e aspetta di farsi eredità per chi avrà il coraggio di portare avanti quella lotta. A noi spetta il compito di continuare a raccontarla, di continuare a credere e lavorare per un mondo in cui il motto Donna, Vita, Libertà – Jin, Jîyan, Azadî – non sia più solo utopia.
Per Hevrin, per il popolo curdo, per tutt* noi.
Per approfondimenti:
Qui l’appello delle donne di Jinwar
Alcuni articoli tratti da Rete Jin:
La femminilazzione delle politiche curde: l’analisi sociologica di una guerrigliera [qui]
L’internazionalismo delle donne contro il patriarcato globale [qui]
La situazione dopo l’accordo curdi-Siria:
«Tra genocidio e compromesso scegliamo la nostra gente». La situazione in Rojava dopo l’accordo con Assad [qui]
L’Italia che sostiene il popolo curdo:
Italia, quattro giorni di mobilitazioni contro Erdogan. «Rojava è ovunque» [qui]