Le pupille sono strette in leggere fessure color terra mentre le labbra sottili s’increspano in rapidi spasmi di sofferenza; attorno, il suono del respiratore legato al naso riempie la stanza di un sentore di sconsolata attesa. I capelli chiari e radi sembrano giocare a nascondersi nei raggi obliqui del sole pomeridiano che fanno capolino dal finestrone impolverato dell’ospedale. Poco più su le mani da bambino già incartapecorite dai calli provano con poca insistenza a creare ombra.
Al lato del letto, i drappi colorati a festa del vestito lungo della mamma si muovono lenti, silenziosi, a cercare di convincere le piccole dita indurite a mandare giù un tozzo di pane che la bocca rinsecchita non sa più fare suo.
Entriamo nella stanza e le quattro pupille si girano verso di noi con una calma ordinaria, come se fossimo ancora nella tenda di casa e noi parte della famiglia. Le guance pallide di Rahman si sollevano a ritmo scostante seguendo le curve di una pace rassegnata. Appena fuori, il tamburellare dei sandali delle infermiere si mescola al cigolio delle barelle in movimento, a segnare il ritmo incalzante di una emergenza scritta su decine di labbra impietrite dall’inappetenza.
Nella provincia di Zabul, nel sud dell’Afghanistan, un bambino su tre sotto i cinque anni soffre di malnutrizione acuta o grave. Le comunità più colpite sono quelle nomadi delle zone rurali come le tribù kuci, schiacciate dal peso di vent’anni di guerra e da una siccità senza precedenti che ha rotto i precari equilibri agricoli e pastorali dell’area.
La recente scelta del governo pakistano di espellere tutti gli afgani privi di documenti presenti nel paese ha inasprito ancora di più le difficoltà degli abitanti della regione. Si stima che negli ultimi quattro mesi circa mezzo milione di persone abbia attraversato la frontiera per tornare ad abitare dopo decenni le terre d’origine, ormai inaridite da un conflitto feroce anche negli strascichi economici capace di lasciarsi alle spalle.
In questo contesto, grazie ai finanziamenti dell’Unione Europea, la ong INTERSOS opera con programmi di risposta umanitaria integrata offrendo gratuitamente servizi medici e nutrizionali di base in particolare a bambini e donne incinta, le fasce più colpite dalla crisi socioeconomica.
L’ospedale di Qalat, il capoluogo della provincia a prevalenza pashtu e kuci, è uno dei presidi di riferimento dell’area per chi, come la famiglia di Rahman, non ha mezzi per far fronte a una condizione di malnutrizione cronica.
“Ora in Afghanistan c’è pace, c’è sicurezza, ma le condizioni di vita degli abitanti soprattutto nelle province del sud sono ancora molto precarie. I campi si stanno inaridendo, prima bastava scavare dieci o venti metri per tirare fuori acqua dai pozzi; ora non ne bastano cento. A questo si aggiunge la crisi economica. Il prezzo del riso o della farina è raddoppiato negli ultimi due anni” ci racconta con un filo di voce la dottoressa Topikai, mentre con lo sguardo e il movimento rapido delle braccia dà istruzioni alle infermiere appena fuori dalla stanza di prendersi cura di una bambina di qualche mese infagottata tra le coperte. “La guerra è finita ma le conseguenze sono ancora tutte qui” e con un gesto misurato delle sopracciglia accenna alle braccia rachitiche coperte dal pigiama turchese di Rahman. Fuori i gemiti si fanno più acuti, allora la dottoressa ci chiede scusa e si allontana per seguire l’emergenza.
Ci appoggiamo alla parete di fronte al letto. Nava tira fuori la macchina fotografica e chiede il permesso alla mamma di scattare una istantanea di quello che sembra un piccolo presepe senza doni. La donna annuisce leggermente con la testa. La macchina inquadra il volto del piccolo e alla vista dell’obiettivo gli occhi stretti induriti dagli spasmi si aprono in un sorriso carico di gioco. La luce del tramonto si fa dorata e le labbra finalmente aperte di risa sembrano ingoiare in un sorso quello che serve per ricaricare le guance smunte. Le dita armeggiano con il tozzo di pane che prende le forme di un chewing gum appena masticato. Con una voce profonda che s’intona male con la pelle liscia di cinque anni chiede a Nava di continuare a fare foto, “ancora ancora”; ad ogni click della camera segue un piccolo scroscio di risa, il collo che ciondola sulle spalle a segnare le curve immaginarie di un gioco di inquadrature racchiuso tutto nei suoi occhi.
Una scarica di tosse segna la fine dell’idillio. La mano soffice della mamma accarezza con cura la fronte con un panno e la macchina fotografica di Nava smette di fare click. Le pupille di Rahman tornano piano due fessure, sulle labbra rimane impressa una piccola linea sospesa, tra le dita il tozzo di pane stretto a mezz’aria. La stanza si rifà silenziosa, piena solo del suono ritmico del respiratore. Fuori le grida acute continuano ad alternarsi al tamburellio dei sandali.
Ci salutiamo con un incrocio di sguardi. Nava gioca un’ultima volta mostrando l’obiettivo della camera come fosse un’arma senza proiettili e Rahman risponde con un sorriso appena accennato, questa volta stanco.
La dottoressa Topikai si riavvicina quando siamo già sulla porta, ci guarda e poi lascia cadere le pupille sulle fessure degli occhi di Rahman. “Ha bisogno di tempo”.
La mamma alza la fronte verso di noi con le labbra fuori dallo sciallo appena aperte, come a voler chiedere qualcosa che rimane muto.
Nava solleva la camera per un ultimo scatto. Rahman non ride più, gli occhi di nuovo incrostati di silenzio si spostano a contemplare il mondo appena fuori dalla finestra. Il tozzo di pane ancora stretto tra le dita indurite di bambino che comincia a seccarsi.
Click.