Oggi, 25 maggio, si celebra la Giornata mondiale dell’Africa. La data ci ricorda di quando, il 25 maggio 1963, venne fondata l’Organizzazione dell’Unità Africana (o Unione Africana) i cui obiettivi comprendono l’eliminazione di ogni forma di colonialismo sul suolo africano, promuovere l’unità e la solidarietà tra gli stati africani nonché la cooperazione internazionale. Questi obiettivi sono tra i problemi maggiori che affliggono il continente africano dall’epoca del colonialismo, quando l’Europa ha posto le sue basi in una terra ritenuta da conquistare e da cui, ancora oggi, continua a prendere senza dare.
Quella africana è una questione più che mai attuale e lontana sembra essere ancora una risoluzione definitiva che possa permettere a questo continente e ai suoi popoli di liberarsi dal giogo neo-coloniale ed essere padroni delle proprie risorse. A nessuno piace ammettere le colpe europee, perché sono colpe che riguardano tutti noi da vicino, come cittadini e come consumatori. Ma la realtà dei fatti è che l’Europa ha un debito enorme nei confronti dell’Africa che tarda ad essere ripagato, in favore di politiche e azioni non risolutive che si limitano a mettere la “polvere” dei problemi sotto il tappeto.
Una delle più grandi questioni che ci tocca da vicino, ovviamente, è quella dell’immigrazione. Sappiamo bene quale sia la narrazione dominante che negli ultimi anni soprattutto si è imposta nel dibattito pubblico, anche per via di una classe politica troppo impegnata in una gara di colpe e responsabilità per poter lavorare davvero alla ricerca di una soluzione comune sostenibile e rispettosa dei diritti delle persone coinvolte. E quando c’è chi va davvero ad “aiutarli a casa loro”, slogan tanto caro a chi vuole nascondere ai propri occhi la complessità della questione, anche allora il trattamento riservato a queste persone resta nel sentiero unico di una propaganda martellante e ipocrita.
Come può l’Africa “aiutarsi da sola” se l’ingerenza occidentale è ancora così forte e determinante nel suo territorio? L’obiettivo di una maggiore stabilità interna, infatti, è minacciato anche dalla presenza di militari occidentali nelle zone soggette a maggiori tumulti. Ovviamente non si vuole deresponsabilizzare quei governanti degli Stati che spesso operano col favore della corruzione, aumentando gli squilibri sociali interni alla propria nazione, in favore di un arricchimento personale. Quella della stabilità è una delle più grandi sfide del continente, che deve destreggiarsi tra colpi di stato, terrorismo e lotte interne.
Alcune di queste sono il retaggio di una divisione territoriale, eredità del colonialismo europeo, fatta su carta, senza tenere conto delle esigenze delle popolazioni che abitavano il territorio. Si sono, così, venuti a creare conflitti di natura etnica come quello – fra i più conosciuti – tra Tutsi e Hutu, che faceva da sfondo alla guerra civile in Ruanda e che causò un genocidio.
Alla contesa delle terre africane, dopo Europa e Stati Uniti, si aggiunge anche la Cina che in circa dieci anni è riuscita a colonizzare il continente senza usare la violenza, configurandosi come nuova potenza post-coloniale e sollevando timori nelle altre. Rapporti tra Africa e Cina, in realtà, ci sono sempre stati nel corso degli anni ed è proprio durante il comunismo di Mao che è iniziata la moderna ondata di migrazioni dalla Cina verso il continente africano. Oggi l’Africa conta sul suo territorio circa 10mila aziende cinesi, di cui il 90% private. Le aziende locali lamentano la presenza cinese poiché rallenterebbe la crescita economica, avendo la Cina rilevato la vendita diretta di piccole imprese: prolificano i mercati cinesi e quelli locali si paralizzano.
Ancora una volta, quindi, l’Africa viene vista come una scacchiera sulla cui superficie giocano gli interessi di quella parte di mondo già arricchitasi sulle spalle dei colonizzati, accrescendo per per di più il debito pubblico di Paesi già in grandi difficoltà. Ho parlato di debito europeo nei confronti dell’Africa, un debito innanzitutto morale. Quello economico, infatti, è a carico delle nazioni del continente e la Cina non ha fatto altro che aggravarlo.
Con l’emergenza da Covid-19 le difficoltà per l’Africa sono aumentate e una proposta avanzata sarebbe quella della cancellazione di parte del debito cinese, proposta che la Cina non sembra voler accogliere. Ma di una cancellazione del debito africano si parla da decenni senza però trovare una soluzione reale. Tra gli anni ’90 e 2000 si è pensato a un alleggerimento del debito e alla promozione di iniziative volte allo sviluppo sociale. Ma dopo questa fase iniziale l’Africa si è trovata nuovamente travolta dagli interessi e dall’impossibilità di saldare il suo debito: le cause che concorrono sono il crollo del costo delle materie prime, sulla cui esportazione si regge parte dell’economia locale; l’entrata in scena di nuovi creditori come, appunto, la Cina cui comincia a fare seguito anche la Russia; e, di cruciale importanza, il fatto che l’Africa non riesca ancora a produrre in modo autonomo ciò che consuma. Si tratta di un circolo vizioso da cui non sembra esserci via d’uscita e di un debito che, a conti fatti, non ha aiutato realmente il Paese nella sua crescita.
E mentre l’Africa lotta per conquistare la sua autonomia, perdendo purtroppo gli appuntamenti con gli obiettivi che si era prefissata (come quello di mettere fine alle guerre sul suo territorio entro il 2020), molti dei suoi cittadini decidono di rischiare la propria vita in viaggi lunghi e pericolosi per arrivare alle porte dell’Europa, dove cercare e creare le possibilità per una vita migliore. Quello che molti di noi non vogliono vedere è che queste persone, di cui ci piace parlare con appellativi spersonalizzanti quali “immigrati” e “clandestini”, hanno la propria storia di dolore e resistenza. Molti di loro sono qui per aiutare, con i pochi soldi che guadagnano, le famiglie rimaste nella loro terra, alcuni non hanno più una famiglia e molti altri sognano di tornare nel proprio Paese, dove hanno lasciato le loro radici. Altri ancora hanno studiato, hanno una laurea, che non sempre viene loro riconosciuta così da costringerli a riconvertirsi in altri lavori, spesso precari e dequalificanti. Ad esempio nelle nostre campagne, a lavorare la terra che produce la frutta e la verdura che finiscono nei nostri piatti e che acquistiamo senza domandarci troppo di quali sudori e ingiustizie è intrisa.
Lo sciopero dei braccianti agricoli che si è verificato solo qualche giorno fa è stato allora un momento di grande mobilitazione sul nostro territorio, di lotta e protesta per portare alla luce una situazione sistematica di sfruttamento che per troppo tempo è stata procrastinata e ignorata e che ci riguarda tutti e tutte. Perché i diritti sono di tutti, o di nessuno. E chi lotta per sé lo fa anche per gli altri.
L’intento di questo articolo non è quello di dividere il mondo in buoni e cattivi. D’altronde anche gli studiosi di geografia del potere mettono in guardia dal cadere prede del “mito del buon selvaggio”. L’intenzione è, piuttosto, quella di rimarcare la complessità di una tematica che non trova risoluzione tramite slogan dettati da atteggiamenti di paura ed ignoranza, di chiusura e mancata comprensione. Riflettiamo perciò sulle diverse implicazioni che hanno giocato un ruolo fondamentale nella delineazione di certe dinamiche e sulle concause politiche e sociali che sono alla base.
Vi lasciamo con la breve ed incisiva testimonianza di un migrante a Castel Volturno, raccolta nel libro Antimondi delle migrazioni, di Fabiana D’Ascenzo (Lupetti, 2014).
«Dove vorresti andare a vivere?»
«In Ghana. Sto pensando a una maniera per ritornare, per la prima volta dopo cinque anni, e il solo pensiero mi rende felice»
[Foto in evidenza: Africa Union]