Madre.
Pare che la parola provenga dal sanscrito: ma- principio ordinatore, forma, misura.
Ma… cosa significa essere madre?
Da giovane insolente ho sparato a zero sugli errori di mia di madre, divisa tra un misto di rabbia e ammirazione nei suoi confronti, con cui tutt’ora mi misuro.
Quel vincolo che si impone come indissolubile, totalizzante, quasi atroce, che fa perdere i limiti di sé stessi.
Dove inizio io e dove finisce mia madre? Secondo la psicologia, qui interverrebbe la funzione del padre.
Nel permettere al bambino di vedere che c’è altro, esiste altro al di fuori di quel vincolo di simbiosi.
Il taglio è necessario, fondamentale, per iniziare il percorso di costruzione della propria identità, per uscire da quella bolla narcisistica dove tutti in un certo momento ci troviamo immersi.
Ma che succede quando il padre è esiliato, annullato, fatto a pezzi?
Quando si instaura la colpa nel desiderare questo affetto “altro” che è ingiustamente posto al di fuori della propria portata? Quando in poche parole veniamo tagliati fuori dal mondo?
Sentimenti di rabbia, frustrazione, odio, impotenza ci attanagliano e per sopravvivere rivestiamo un ruolo, ad esempio quello di vittima, in cui l’energia vitale si perverte. Ovvero ci richiudiamo in noi stessi. Sviluppiamo tratti del cosiddetto sottotipo di personalità depressa.
Eppure occorre ricordare che ad ogni facciata corrisponde un’ombra.
Assistendo ad alcune lezioni, mi ha colpito molto l’affermazione che dietro ogni depresso si nasconde in realtà un narcisista fallito. Sono due facce della stessa medaglia.
Dietro un’attitudine condiscendente, sottomessa e docile si cela una brama di considerazione, affermazione e potere. In questo caso, quel nucleo di rabbia che sta all’origine e che non ha potuto riversarsi all’esterno, ricordiamo che il padre ha anche una funzione d’accoglimento dell’aggressività, si riversa all’interno. Diventiamo dominatori e accusatori di noi stessi.
Successivamente si sviluppa la maschera, con l’esperienza ci rendiamo conto di ottenere dei vantaggi con un determinato comportamento, ricorrendo o meno a determinati sotterfugi.
In pratica impariamo a fare i conti, impariamo a manipolare.
Non ci è stato insegnato altro, e in questa società ogni giorno sempre più votata al consumismo, sembrerebbe strano provare ad approcciare in modo diverso.
In questo mondo siamo affamati, ma non di quella mercanzia che ci hanno inculcato a forza di voler/dover desiderare, siamo affamati d’amore. Un amore che forse in qualche modo in passato abbiamo interpretato come se ci fosse negato. E nel nostro mondo ideale, nonostante l’ingiustizia, abbiamo preferito crederci noi gli indegni, i cattivi, per far sopravvivere quell’immagine grandiosa dei nostri genitori da cui dipendeva la nostra sopravvivenza. Per essere accolti, per non essere abbandonati, per non essere lasciati soli.
Allora crescere è, chissà, ridimensionare quell’immagine ideale e temibile dei nostri genitori, fare del Dio carne, per dirla con parole religiose e cominciare ad approcciarci così a un’altra radice profonda delle nostre credenze.
Ritornare alla realtà, farci vita, sentire…
Renderci conto della nostra finitezza e vulnerabilità…
E finalmente, vivere.