Oggi parliamo di una favola antica come il mondo, o meglio come il patriarcato e ciò che ne è derivato.
Un nobile cavaliere si innamora di una pulzella. Ha occhi di rugiada, labbra di rosa, passerotti che le svolazzano attorno, eccetera eccetera. Quando però scopre che la tale fanciulla non è né indifesa, né remissiva, né bisognosa di particolari attenzioni a tutti i costi, il gentile eroe precipita in una crisi esistenziale: «chi sono, ommioddio, se non posso nemmeno più aprire uno sportello o provarci per primo?». Non contento, il valoroso combattente lancia al cielo anatemi vari ed eventuali contro l’acerrimo Nemico della sua Virilità. Non più draghi, non più spietati predoni, qualcosa di ben più pericoloso si affaccia all’orizzonte, pronto a minare il suo Ego e il suo incrollabile senso di superiorità: LE FEMMINISTE. «Maledette, me la pagheranno per avermi privato del diritto di definire la mia identità sull’altrui (imposta) fragilità per non far fronte davvero alla mia!». Come finisce questa favola? Il cavaliere rimane solo a crogiolarsi nella propria frustrazione, la pulzella si domanda cosa abbia sbagliato, poi si stufa ed esce a bere con quelle streghe malefiche senza reggiseno.
Ora torniamo con i piedi per terra, per dire che questa favoletta ci ha alquanto stancato. Sì, perché è davvero mortificante dover star qui, di nuovo, ad affermare che la libertà, verità ed identità della donna non possono essere amputate o sovradeterminate in funzione dell’ego maschile. Ci si chiede perennemente di essere piccinepicciò, carine e impacciate, bisognose e pacate, eterne ragazzine, per non turbare l’ego dell’uomo che ci si pone davanti, per non incrinare le sue certezze, per non minare le convinzioni che si è costruito sulla propria identità e il proprio ruolo. E che stanchezza dover star qui a sentire per l’ennesima volta un uomo che pensa ad una femminista come ad una sorta di degenerazione del femminile, un abominio identitario inaccettabile. Sai che novità: qualcuno che vuole dirci cosa significa essere “vere donne”. E qui, la noia avrebbe già dovuto prender il sopravvento, se non fosse che forse il fastidio riesce ancora a superare quella ed imporsi, a ricordarci che di lavoro da fare ce n’è ancora tanto.
Sarà mica che, se un uomo è tanto intimorito dall’indipendenza (materiale, emotiva, psicologica) di una donna, non è lei ad esser “troppo femminista”, ma lui ad esser giunto impreparato all’appuntamento di un mondo che sta cambiando e con esso i tradizionali rapporti tra i generi? Rapporti che prevedevano – ricordiamolo – la sottomissione della donna, una visione del “romanticismo” e della “cavalleria” come ricatto “d’amore” (per certi versi una forma vera e propria di abuso), l’uso della “famiglia” come luogo di produzione e riproduzione di ingiustizie, disparità, asimmetrie di potere, sfruttamento. Tutto questo non è ancora finito, ma sta finendo… e per fortuna.
Il problema non è nelle parole ma in ciò che significano: cosa vuol dire romanticismo, cosa famiglia, cosa cavalleria? Non è un peccato aprire uno sportello o pagare la cena (vedi un po’ di cosa dobbiamo star a parlare…), ma diventa un gesto problematico se un uomo si aspetta in cambio qualcosa o accampa diritti di qualche tipo in seguito, cosa che puntualmente accade. E resta un gesto sessista se continuiamo a dire che è compito proprio del maschio fare tutte queste cose, perché veicoliamo due messaggi: le donne sono bamboline bisognose di attenzioni e cure perenni; gli uomini sono uomini in quanto fanno certe cose e se non possono farle non sono “veri uomini”.
Penso agli uomini che vivono in ristrettezze economiche, precari o disoccupati, penso agli uomini con una qualche forma di disabilità, penso agli uomini che convivono con una o più malattie mentali. Ci penso sempre ed è anche per questo che credo sia sano eliminare certe aspettative e certe modalità di rapportarsi all’altro/a dando per scontato determinati fattori o caricando di significati assoluti certi gesti.
Ho conosciuto uomini talmente insicuri che, non avendo soldi per pagare, mi hanno chiesto però di poter lasciar andare loro in cassa (col mio portafoglio) perché si vergognavano. Ho conosciuto uomini che pensavano fosse loro dovuto del sesso, del tempo o certe cure “emotive” a seguito di loro attenzioni, regali o quant’altro. Ho conosciuto uomini che mi hanno apertamente dato della str***a per aver interrotto una conoscenza “dopo essermi fatta scarrozzare/offrire una cena” o per aver rifiutato dei doni. Ho conosciuto uomini scandalizzati e apertamente risentiti per il fatto che volessi offrire io o pagare la mia parte. Ho conosciuto uomini terrorizzati dall’idea che una donna possa prendere iniziativa o avere desideri sessuali ed esplicitarli. Riassumendo: ci sono uomini che non accettano, ancora, il nostro pieno statuto di Soggetti, questa è la verità.
E poco importa esser definita “pesante” o “la femminista di turno” in senso quasi dispregiativo, di fronte a questo “incomprensibile” risentimento in genere chiedo spiegazioni, anche per capire chi ho davanti. Domande oneste e aperte, del tipo: «hai mai riflettuto sul perché ti senti minacciato da una donna che vuole offrirti la cena o non vuole che la si venga a prendere sotto casa?», oppure «perché fondi la tua virilità e sicurezza su quanto bisogno delle tue attenzioni ti dimostro?». In pochi, pochissimi, hanno sfruttato l’occasione per avviare una conversazione che in effetti sarebbe stata positiva e arricchente per entrambi.
Insomma: questa narrazione tossica, oggi nuovamente veicolata da un volto noto della tv e del cinema, non fa bene a nessuno. Personalmente, mi reputo femminista. Non per questo disprezzo a priori certi gesti, semplicemente vorrei esser libera di interrogarli senza per forza dare adito o assecondare le smanie, le insicurezze croniche o l’ego di chi ho di fronte. Vorrei essere libera dal ruolo di dama bisognosa e poco autonoma che continua spesso e volentieri ad essermi imposto, anche (e soprattutto) da chi dice di desiderare una donna “forte e indipendente”. Che poi non è tanto di forza che dovremmo parlare, ma dell’imparare ad accettare le proprie fragilità senza riversarle sull’altro/a e a relazionarci ad esse senza alibi.
Finché l’idea di mascolinità sarà costruita su una visione distorta e tossica della virilità, non ci sarà spazio per analizzare e condividere né le nostre debolezze né le nostre conquiste. E ogni appuntamento, ogni relazione, resterà una recita in maschera, anche piuttosto datata. Un’occasione mancata per incontrarsi davvero.
Vignetta: dal blog di Judy Horacek