Aida Aicha Bodian è una delle attiviste più movimentate ed eclettiche che abbia mai avuto il piacere di incontrare. Scrive, organizza workshop, lavora per migliorare la comunicazione tra le persone, cura un blog sul valore della multi-identità e disegna capi di moda eco-friendly con cui esprime la bellezza che nasce dal confondere stili e origini diverse. Tutto con un instancabile sorriso e la volontà di ispirare cambiamento positivo. A breve uscirà il suo libro “Le parole dell’umanità“, edito da People e arricchito dalle illustrazioni di Nicola Grotto, in cui ricerca il senso “umano”, prima ancora che letterale, delle parole per svelarne le molteplici identità.
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere dopo la Diretta Resistente di Aware, di cui è stata ospite mercoledì 10 giugno insieme ad Antonella Bundu, John Mpaliza e Don Massimo Biancalani. Ne è venuta fuori una intervista piena di spunti sulla bellezza di avere radici lontane, l’utilità di parlare sette lingue e i passi che mancano perché tutto questo sia valorizzato nella società che viviamo.
Aida, sei un vulcano di idee, progetti e ispirazioni diverse: consulente, blogger, imprenditrice, attivista, scrittrice. Qual è il filo conduttore che lega le tue diverse anime?
È vero ho tante passioni che cerco di concretizzare in progetti reali. Credo che il filo conduttore che alla fine lega tutte queste idee sia la valorizzazione della diversità e il desiderio di creare nuove narrazioni, mostrando modelli positivi di bellezza, esteriore ma soprattutto interiore. Con il tempo ho imparato a fare della diversità, non più un qualcosa di negativo, ma un punto di forza e la base per lo sviluppo dei miei progetti, sia personali ma anche professionali.
In ogni tua attività traspare la volontà di dare volto e parole al concetto di multi-identità. Cosa ispira la tua creatività e quanto della tua storia sparsa tra tre paesi (Senegal, Italia e Francia) ritrovi in quello che fai?
C’è un pensiero che mi accompagna da quando sono piccola: essere ispirata per ispirare a mia volta. Sono nata in Senegal, ma sono cresciuta praticamente in Italia e oggi mi racconto dalla Francia. Ho vissuto in diverse regioni, incontrato persone che per me hanno avuto un impatto particolare; attraverso la partecipazione, l’associazionismo, ho sviluppato il desiderio di essere parte attiva di quel processo di cambiamento e di riconoscimento di una società italiana plurale. Ciò che faccio oggi è principalmente unire questi elementi a comunicazione, tecnologia, creando momenti di empowerment o più che altro d’ispirazione. Mia madre diceva e dice tutt’ora: in qualunque posto andrai semina bene e cerca di lasciar un buon ricordo di te. Così ho fatto e cosi continuo a fare.
Avverti un problema nella nostra società, italiana in particolare, nella valorizzazione della diversità e della “multi-culturalità”? Vedi soluzioni?
Purtroppo tanti ancora si basano sul colore della pelle di una persona per definire la sua storia e la sua essenza. Tante volte mi è stata posta questa domanda: “da dove vieni?”. Di primo acchito rispondevo che provenivo dall’Italia. In realtà avrei poi preferito rispondere che abitavo in un paesino vicino ad una delle più belle città dell’Italia. Sapevo però che vedendomi di persona la gente si chiedeva di dove ero originaria, e quindi si aspettava la citazione di un paese africano. Col mio orgoglio black, che giorno dopo giorno aumentava, ero entusiasta di raccontare le bellezze del mio paese natale. Ma il punto non era quello. Il punto era ed è tutt’ora trovare la risposta corretta a quella domanda “Da dove vieni?”. Vorrei ogni volta rispondere che sono cittadina del mondo, ma tanto non interpreterebbero quella frase allo stesso mio modo. Per il momento resto una senegalese, italiana, in Francia, afroitaliana, afropolitana, con tutto ciò che può comportare l’avere avuto diverse esperienze in questi tre paesi. La diversità oggi è un concetto molto complesso che non può essere legato solo al colore della pelle di una persona. Parlarne ogni giorno, utilizzando le adeguate parole, creare spazi di discussione e condivisione, promuovere il messaggio della sua bellezza, della sua ricchezza, del suo valore positivo, sono alcune azioni che ognuno di noi può intraprendere attraverso diverse forme d’espressione e d’arte.
A questo proposito, in un Ted Talk molto seguito del 2009, la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie richiamava l’attenzione sui pericoli legati al “racconto unico”, attraverso cui le società più ricche, sia economicamente che in termini di potere, banalizzano e semplificano fino a distorcere l’identità di altre culture, come quelle dei paesi africani. Hai avvertito nella tua vita personale e professionale le conseguenze di questo tipo di pensiero “semplificatorio”?
Io adoro le storie. Credo molto nella loro importanza e al fatto che tutti noi siamo portatori di una storia, straordinaria nella sua ordinarietà o ordinaria nella sua straordinarietà, che merita di essere ascoltata e raccontata almeno una volta, appunto perché unica. Trovo lo speech di Chimamanda favoloso e molto vero, che rispecchia l’esperienza di tanti bambini di origine africana con la passione per i libri. Limitarsi ad un unico immaginario è controproducente e impossibile quando si vuole veramente costruire una società il più inclusiva possibile. Controproducente perché i primi ad esserne colpiti sono proprio gli appartenenti delle culture in minoranza, che si ritrovano ad essere raccontati, spesso e volentieri, con stereotipi e pregiudizi che faticano ad essere smantellati e che poi sfociano in episodi di discriminazione, episodi che sono stati presenti anche nella mia vita. Nel percorso di crescita e di maturità ho cercato di andare contro ciò, sviluppando inizialmente la community “The Diversity Net” per promuovere la diversità in ogni sua forma e pensiero, poi il blog “Afrital Girl” raccontando le mie avventure (e disavventure) da italosenegalese e successivamente la community Nebua, un progetto imprenditoriale con l’obbiettivo di fornire nuovi occhi e contribuire a creare una narrazione differente delle donne afro-black.
A breve uscirà il tuo romanzo “Le parole dell’umanità”, edito da People, con illustrazioni di Nicola Grotto. È un esperimento in sillabe e immagini sul senso delle parole, sul loro significato, umano prima ancora che letterale. A tuo avviso, qual è il ruolo delle parole in una società inondata da flussi comunicativi enormi? Perché serve un approfondimento sul loro senso, oggi?
Le parole sono importanti, e lo sono ancora di più quando vogliamo creare un cambiamento positivo, quando vogliamo sviluppare un ecosistema che rispetti le differenze e i pensieri di tutti i suoi componenti. Ci sentiamo tutti in diritto di esprimere un’opinione, soprattutto grazie alle nuove tecnologie e ai social network, sempre e comunque, anche in merito ad argomenti che non ci competono. Tante volte lo facciamo senza riflettere a fondo sulle parole che utilizziamo. Io credo molto nel loro valore e nella loro potenza, che può essere costruttrice ma anche distruttrice. Dobbiamo sforzarci a praticare un ascolto attivo e ad essere un po’ più empatici, perché le parole se usate in modo scorretto, feriscono, creano barriere, incomprensioni, lasciano segni invisibili ma indelebili. Serve quindi una buona educazione al loro utilizzo. Tutti noi siamo attori di questo processo, che coinvolge in primis i genitori, gli insegnanti, ma anche le istituzioni, le aziende e i media.
Una delle prime parole descritte è un termine della lingua bantu: ubuntu. Con qualche difficoltà, lo traduciamo come “legame e senso di appartenenza verso il prossimo”. Perché hai messo proprio questa parola all’inizio?
Ubuntu è una parola che può essere tradotta se vogliamo in umanità. Ma in realtà rappresenta un concetto più ampio, la profonda consapevolezza che per diventare veramente umani, abbiamo bisogno di un reciproco riconoscimento. Quando non trattiamo l’altro con umanità, automaticamente viene a mancare la nostra umanità. C’è un legame di condivisione che ci unisce. Ciò che siamo oggi è il frutto della vita di un’infinità di altre persone. Sono partita da questa parola perché oggi più che mai abbiamo bisogno non tanto di senso civico, ma di senso dell’altro: sentirlo, capire cosa possiamo fare noi per lui o lei e viceversa. Abbiamo bisogno di imparare a essere persone, ancor più umani, imparare a fare del bello attraverso piccole azioni e gesti che facciano stare bene noi e gli altri. Questo libro vuole essere una sorta di manuale, un memorandum delle parole dell’umanità, di quelle piccole espressioni che ci hanno insegnato quando eravamo bambini ma che crescendo, con il tempo, un po’ abbiamo dimenticato.
Oltre alla scrittura, una tua grande passione è la moda, soprattutto quella che affonda le radici nella cultura afro. Può essere anche la moda uno strumento per sensibilizzare sull’importanza culturale della diversità? Come?
Si direi di si. Nel progetto Nebua oltre a sviluppare una community in cui raccontare storie di donne che ce l’hanno fatta, che hanno avuto il coraggio di andare oltre i no e i pregiudizi, mi piace l’idea di sviluppare anche un progetto etnico, etico e sostenibile che contribuisce a smontare stereotipi e promuovere messaggi positivi di accettazione. La moda diventa quindi uno strumento per comunicare una propria identità, quella di una donna consapevole delle sue potenzialità, matura, che accetta la sua essenza che deriva sicuramente da diverse esperienze. Ho presentato due mini capsule collection durante la scorsa edizione dell’Afro Fashion Week a Milano. Una collection si basava sull’utilizzo del tessuto wax per presentare una serie di abiti e gonne dai tagli più moderni l’altra invece, “Melanin Nappy”, è una collezione di t-shirt in cotone bio che, attraverso parole e disegni, promuove l’accettazione della nostra duplice identità, dei nostri capelli ricci, afro e della nostra pelle nera.
Parliamo di attualità: l’assassinio di Floyd a Minneapolis sembra aver smosso le coscienze di grandi fette nella popolazione, anche nel nostro paese. A tuo avviso, cosa serve per avere un cambio culturale sulla percezione del razzismo in Italia?
La morte di Floyd ha scatenato veramente un terremoto emozionale che ha dato il via, come abbiamo visto, ad una serie di proteste in tutto il mondo. Purtroppo non è il primo caso negli Stati Uniti, basta pensare alla storia di Ahmaud Arbery o anche quella di Breonna Taylor per capire che la lista è veramente lunga. È giusto soffermarci su quanto è accaduto negli Usa ma credo sia importante anche focalizzarci su quanto accade in Italia, dove purtroppo non sono mancati episodi simili. Quando si creano contesti di razzismo e discriminazione automaticamente si creano contesti che privilegiano purtroppo una sola categoria. Noi siamo diventati bambini, donne e uomini neri, quando ci è stato fatto notare che il nostro essere neri era un qualcosa di negativo e va bene cosi. Ognuno di noi ha reagito a ciò in modo diverso, in base alla propria indole e esperienze personali. Abbiamo pianto, ma abbiamo anche lottato, siamo caduti, ci siamo rialzati, a volte ci è mancato in un certo senso “il respiro”, ma abbiamo imparato a non chiedere più, a non chiedere più di darci la voce, di raccontarci. Abbiamo trovato o stiamo cercando gli strumenti per farlo noi, direttamente, in modo autentico, reale, senza stereotipi.
Quanto credi che la lotta alla discriminazione passi attraverso l’impegno del singolo e quanto attraverso politiche nazionali e internazionali realmente efficaci?
Tanto. Credo sia importante riconoscere il proprio privilegio, perché solo cosi è possibile instaurare alleanze che durano nel tempo, in grado di combattere sistemi di ingiustizia strutturale. Non è possibile pretendere il privilegio di esaltare una cultura denigrando un’altra. Dobbiamo imparare a mettere radici e sradicarci. Avere il coraggio di contaminarci, di conoscere nuove realtà, nuovi pensieri e imparare a convivere tra noi. A chi crede che non è possibile dico che non è vero. Promuovo la cultura senegalese tanto quanto quella del Bel Paese, tutte due mi appartengono. Ho preso consapevolezza che posso essere italiana e senegalese allo stesso tempo, che parlare in casa djola, wolof, italiano, dialetto veneto, dialetto reggiano, passando al francese e l’inglese non può che essere un valore e una ricchezza da coltivare e tramandare. La mia è una sola storia, ma ce ne sono tantissime altre, diverse, uniche. Ci sono persone che ereditano, tre, cinque e più culture e non si pongono più il problema per qualcosa di naturale e che rappresenta l’evoluzione dei rapporti umani.
Futuro: a cosa stai lavorando in questo periodo? Nuovi progetti dopo l’uscita di “Le parole dell’umanità”?
Oltre alla promozione del libro “Le parole dell’umanità” sto sviluppando il mio progetto principale, Nebua, cercando di fornire strumenti utili per la crescita personale, motivazionale e professionale, ma anche fornendo ad altri (indirettamente) strumenti per rapportarsi in modo più autentico con le donne afro-black. Continuerò la ricerca di parole belle, di storie, chissà che da esse non nasca poi un nuovo libro.