– di Edoardo Raimondi
Non nascondo le difficoltà di comporre un discorso coerente su quanto sta accadendo in Italia in queste ore. Alla fine, mi sono convinto che il modo migliore per iniziare era quello di considerare alcuni messaggi lanciati a reti unificate da ex ministri, da capi di partito e da governatori regionali. Ed è così che alcuni paradossi mi sono apparsi palesi, del tipo: urlare di governi “forti” e, al contempo, sostenere le autonomie regionali (e sanitarie). Quindi prima voler continuare a tenere aperte tutte le attività produttive e commerciali – era quanto sosteneva il capitano Salvini fino al 27 di febbraio – per poi, dopo poco più di 24 ore, richiederne a gran voce la chiusura totale.
In questi giorni critici, in cui la pandemia da Coronavirus sta generando grande confusione, paura e angoscia mista a speranza, fa riflettere pure il fatto che, per tentare di sostenere un’economia al collasso, da un lato si sia proposto l’annullamento totale delle tassazioni (rivolgendosi soprattutto a chi, le tasse, non le ha pagate quasi mai) e dall’altro si sia invocato l’aiuto dello Stato – dunque di un sistema di welfare efficace. Da questo punto di vista, insomma, mi è parso evidente come, fatta salva la contingenza emergenziale con e nella quale dobbiamo misurarci, questi due estremi – no taxation e welfare pubblico – confliggano di per sé. Benché qualche “sovranista” li voglia ancora far demagogicamente coincidere per portare avanti una campagna elettorale permanente che puzza sempre più di sciacallaggio.
Nel frattempo il governatore lombardo Fontana, fino al 25 di febbraio, chiosava che quella provocata dal Covid-19 fosse «poco più di un’influenza». Ed è così che tutte le produzioni locali e nazionali hanno potuto continuare a macinare profitti, mettendo a serio rischio la salute dei lavoratori. Ne sanno qualcosa, purtroppo, i cittadini di Bergamo o di Brescia, come quelli di molte altre zone altamente industrializzate del nord Italia e non solo. Ma ecco che lo scorso sabato sera, poco prima della mezzanotte, alla fine il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato al Paese la decisione di chiudere temporaneamente tutte le attività produttive non «cruciali», non «strategiche» e non «indispensabili» a garantire beni e servizi strettamente necessari. Notizia che in molti, giustamente, attendevano con ansia. Ma non è finita qui. Il contraccolpo inevitabile è arrivato con la risposta di Confindustria di ieri sera: «le imprese sono a corto di liquidità, chiudere senza criteri ben calibrati può voler dire non riaprire più». È il primato assoluto dell’economia sulla politica, per dirla grossolanamente. Tant’è che il risultato continua a essere uno, soprattutto in fasi estremamente critiche dove in ballo c’è la salute di tutti: l’emergere di contraddizioni essenziali e di potenziali conflitti, prima, dopo, durante. Sta di fatto che Conte – cosa affatto scontata – quel decreto che stabilisce la serrata generale lo ha firmato come da programma, scongiurando le ipotesi di un rinvio e di uno sciopero generale paventato sempre ieri dai sindacati.
Non voglio soffermarmi, a questo punto, sui toni divisivi e strumentali di una certa parte politica che, evidentemente, concepisce l’opposizione in tempo di guerra come un mero strumento finalizzato a incrementare (il)logiche ostruzioniste e divisive , le quali – come in tempi di “pace” – finiscono per alimentare scientemente solo paura e odio sociale – per non parlare di alcuni messaggi, dai toni decisamente eversivi, lanciati via web da cittadini al di sopra di ogni sospetto. Come se non bastasse. Si pensi, poi, alle ultime dichiarazioni della “capitanessa” Meloni, la quale si è lamentata del fatto che, in una situazione eccezionale e senza precedenti, Conte voglia «fare tutto da solo» – scoprendosi così un’accanita democratica liberale. Lasciamo da parte, invece, le polemiche alimentate sulle dirette facebook del presidente del Consiglio. Non vale neppure la pena parlarne.
Ad ogni modo, l’apice di queste contraddizioni strutturali, come sempre, è riuscito a rappresentarlo magistralmente il Cavaliere, il buon padre di famiglia di tutti gli italiani che ci ha (ri)dato una mancia – con sincero spirito di beneficenza, non lo metto in dubbio – dopo aver giustificato per alcuni anni l’evasione fiscale, approvato condoni e dopo aver contribuito generosamente alla distruzione della sanità pubblica – si veda proprio il famoso caso lombardo di cui fu protagonista lo storico amico Formigoni. Parallelamente, è inevitabile tanto lo scoppio di isterie di massa quanto la caccia agli untori (non solo virali), con relativa modellazione di nuovi nemici da combattere in casa: non più i ciclisti in fila lungo le patrie autostrade, ma i runners amanti del fitness – senza preoccuparsi più di tanto, e neppure in questo caso, di quei runners che, invece, continuano a consegnare cibo o merce a domicilio per guadagnarsi stipendi da fame. Ma, del resto, anche questa omissione rientra nell’affresco dei paradossi di cui sopra.
In ordine sparso, quindi, la comunicazione pubblica di quest’ultime settimane non ha fatto altro che riflettere le contraddizioni oggettive dell’attuale assetto politico e sociale, quello che si è sviluppato contortamente sulla base di un preciso modo di produzione che sta mostrando tutti i suoi insiti terreni di conflitto, passando in primis per la questione sanitaria, arrivando sino a quella ambientale e del lavoro. Di fronte a tutto ciò, si dice, occorre pensare all’emergenza. Ed è sacrosanto. Tuttavia queste stesse contraddizioni non esplodono di meno, mettendo a nudo la natura profondamente irragionevole e inumana di un capitalismo che sembra tendere sempre più ad una fase di saturazione apicale. Insomma, l’ideologia (neo)liberista (e post-moderna) eretta a difesa di questo stesso “modello di sviluppo” sta mostrando più che mai il suo potenziale fallimento strutturale. Per intenderci: oggi suonerebbero quantomeno ironiche (se non tragiche) le parole che Margaret Thatcher aveva pronunciato nel 1987, secondo cui «la società non esiste», ma piuttosto «esistono soltanto gli individui con le loro famiglie». Le facevano eco i postulati reaganiani, per i quali «lo Stato è il problema e non la soluzione» (una bella analisi in merito è svolta da Andrea Ventura in Salute pubblica first, il neoliberismo ha fallito, nell’ultimo numero di Left). Si capisce, allora, perché gli accorati appelli a restare in casa per impedire al virus di diffondersi non possano che sprofondare – come abbiamo amaramente constatato – nell’astrattezza di un’assoluta libertà individuale (sin troppo intrisa di retorica), incapace di concepire l’individuo stesso in quanto fonte di relazionalità aperta all’altro, dacché soggettività sempre inscritta all’interno di limiti e di condizioni da essa indipendenti. E di fronte ai quali l’uomo deve restare pur sempre responsabile: una responsabilità che, quindi, non può restare relegata nella sfera puramente individuale della vita, ma che deve fondarsi sul riconoscimento concreto della vera dimensione collettiva del vivere associato. Solo attraverso un simile cambiamento di prospettiva, forse, si riuscirà a vedere l’ipocrita eccezione fatta valere a scapito di coloro che, fino a qualche giorno fa, erano ancora costretti ad ammassarsi nelle metropolitane per raggiungere il proprio posto di lavoro.
Sarebbe troppo complesso ricostruire qui le ragioni essenziali della scomparsa di un fronte solido ed eminentemente politico, di sinistra e alternativo allo status quo – a livello sia nazionale sia internazionale. Sta di fatto che se un fronte del genere deve ricostituirsi oggi, esso non può più prescindere, credo, da tali punti nevralgici messi a nudo da questa crisi epocale: l’obiettivo dovrebbe restare quello di rompere una buona volta con i rovinosi orizzonti di discorso sino ad ora dominanti e che, consapevolmente o inconsapevolmente, ci si è ostinati per troppo tempo a rincorrere.
Fronte inter-nazionale, si diceva. Va da sé, infatti, che senza rimettere mano alle fondamenta su cui attualmente si erge l’Unione Europea finiremo per incappare in ragionamenti altrettanto astratti. Sostanzialità dei diritti: ecco delle prime parole d’ordine che, in tal senso, mi pare sia necessario reimporre nel dibattito pubblico e politico attuale, a fronte di quanto sta accadendo in queste ore negli ospedali, nei supermercati, nelle fabbriche. Non possono non venire in mente, allora, le scelte che il governo cinese ha potuto prendere in modo legittimo per arginare la pandemia, una potenza che (nonostante la brutta gaf del leghista veneto Zaia sui menù al sapor di topo vivo) ci sta aiutando concretamente in questa emergenza, inviandoci medici, mezzi tecnici e risorse – al pari di Paesi come Cuba, il Venezuela o il Vietnam: non pervenuti gli amici sovranisti, sia detto per inciso. Anzi, è notizia sempre di sabato scorso che il governo nazionalista della Repubblica Ceca ha tentato di occultare il sequestro arbitrario di 680mila mascherine e di migliaia di respiratori che dalla Cina sarebbero dovuti arrivare in Italia (storia simile a quella avvenuta sulla dogana polacca, dove oltre 23mila dispositivi destinati agli ospedali di Roma e del Lazio sono stati bloccati e requisiti). A metterci una pezza, comunque, è stata la Russia, i cui aiuti dovrebbero arrivare a breve.
Ebbene, nonostante tutto il colosso asiatico non ha mai pensato di liquidare l’Ue in quanto tale – al contrario dei sovranisti alla Trump che ne vorrebbero, piuttosto, la disgregazione, non certo a scopi umanitari. Lasciamo da parte, per ora, le innumerevoli fake news e i molteplici travisamenti di significato che stanno circolando sui social in questi giorni circa i rapporti tra Cina ed Europa (false notizie polemiche da cui, in generale, le persone sembrano essere sempre più sfinite). Ciò che mi sembra essenziale mettere in rilievo è il fatto che questa crisi, almeno ad alcuni, imporrà un profondo lavoro socio-culturale, oltre che politico ed economico, per ridefinire radicalmente il modo di concepire i rapporti tra individuo e comunità, tra comunità, società e Stato e, ancor prima, tra uomo e natura. Pena il lasciar prevalere tendenze ancora peggiori di quelle che ci hanno condotto sin qui: le stesse che continuano a rifiutare con cognizione di causa la possibilità stessa della ragione e del discorso, conducendo da un lato a maggiori speculazioni economiche, politiche e finanziare e dall’altro alla riaffermazione della violenza come unico modo d’esistenza e di legittimazione socio-politica – l’ormai celebre darwinismo sociale del I ministro britannico Boris Johnson ne è una delle tante riprove. A tal proposito, calzanti mi sembrano essere le righe scritte da Mario Farina qualche giorno fa per Le parole e le cose (qui l’articolo completo: http://www.leparoleelecose.it/?p=37978) in relazione alle esternazioni di Giorgio Agamben del 17 marzo scorso, a proposito dell’emergenza sanitaria in atto. Per Agamben è evidente che «gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa». La risposta di Farina, così, non ha fatto altro che mettere a nudo quelle contraddizioni oggettive di cui sino ad ora abbiamo parlato. Ciò che tradiscono le parole di Agamben, infatti, è «la profonda e lacerante solidarietà che una certa corrente di pensiero, autonomo e libertario, ha finito per mostrare con le tendenze più estreme, e violente, del liberismo economico. Perché quella “nuda vita” che secondo Agamben dovremmo essere capaci di disprezzare – traduzione tendenziosa e retorica del benjaminiano “bloße Leben”, più prosaicamente rendibile con “mera vita” – non è altro che il benessere minimo del nostro corpo, base essenziale e irrinunciabile sulla quale si edifica quella comune umanità che sola, universalizzata, può essere fonte dell’eguaglianza tra gli uomini». E, aggiungo, di un rinnovato senso delle cose e del vivere in comune.
Se tutto ciò dovrà avere a che fare anche con la possibilità di una nuova “bellezza resistente”, allora, non si potrà prescindere dall’affresco dei paradossi che continua a comporsi nitidamente in questo tempo critico. Che, in ogni caso, continuerà ad essere ancora e pur sempre il nostro.