Stefano, volontario in Camerun per un progetto di reinserimento di giovani carcerati, ci racconta uno spicchio del suo ritorno in Italia e la personale battaglia contro quel sentimento di superiorità verso l’immigrato che, nonostante tutto, ci portiamo dietro costantemente. Ecco.
L’ho pensato e subito dopo me ne sono vergognato. Era la prima volta che mi capitava. Nel ritorno in Italia dal Camerun sono, tra le altre cose, uscito a pranzo con una mia buona amica ed ex collega del CAS all’Ovile. Figlia di albanesi emigrati sui barconi, giovane mamma e avvocata in praticantato, oltre che operatrice sociale, mi ha spettinato con la sua carica di notizie e la lucidità di lettura della realtà degli stranieri nella nostra provincia.
Nel fiume in piena dei suoi racconti giunge un dettaglio a stravolgermi. Nell’appartamento ospitante ragazzi della Costa D’Avorio, Mali e Ghana in cui avevamo lavorato assieme, ben cinque di loro hanno trovato un buon posto di lavoro, alcuni con contratto da due anni, altri a tempo indeterminato. Tra questi uno percepisce 1.800 euro al mese.
Ecco – ho pensato – ecco: guadagna più di me e ha un contratto migliore del mio. Il senso di sopraffazione e ostilità che ho provato mi ha avvicinato come mai prima d’allora ad un certo pensiero (“di destra”) che mai avrei creduto potesse appartenermi. E immediatamente mi sono detto «stai a vedere che avevano ragione!».
Cerco di mandare giù l’amarezza con un carpaccio di salmone e ci salutiamo. Quindi vado a trovare i miei nonni, fintamente non toccato, li ragguaglio come al solito sulla situazione dei migranti nel loro comune. Nonostante le informazioni che ricevono sull’argomento siano per lo più approssimative e demolitorie, restano fortunatamente aperti a considerare punti di vista differenti.
Gli racconto quindi così, così e così e quando giungo sul punto della situazione lavorativa anch’essi esclamano quell’ «ecco!».
Mi risuona allora rapida nella mente una eco di un ecco lontano: «Ecco che il popolo dei figli di Israele è più numeroso e più forte di noi» (Es 1, 8).
Siamo abituati (noi italiani) a vivere le relazioni con gli stranieri da una posizione di superiorità oggettiva: o perché padroneggiamo meglio la lingua, o perché abbiamo più potere economico, o perché abbiamo più relazioni sul territorio… Ogni aiuto, ogni impegno, ogni opinione di conseguenza non può che poggiare su questa certezza di superiorità.
Ma ora, ora che forse per una parte di essi una maggior parità di opportunità è possibile, ecco che viene meno quella pietà e quel senso di ingiustizia che avevano spinto alcuni di noi a mobilitarci.
Eccoci chiamati a riflettere su questo:
Cosa faremo? Ci chiuderemo? Ci metteremo sulla difensiva? O continueremo ad aiutarli?
O forse occorrerà cambiare qualcosa: passare dalla compassione alla collaborazione.
Siamo cioè disposti a non aiutarli perché sono “poveretti” ma piuttosto ad impegnarci perché è giusto che ciascuno possa crescere come individuo e contribuire al vivere comune?
Saremo davvero disposti a non vederli più come inferiori ma come nostri pari, e quindi anche come nostri colleghi o superiori nei posti di lavoro o nelle cariche pubbliche?
Siamo disposti a sentirci fratelli in un modo nuovo?