Assurdo. Viviamo in un mondo in cui le donne fanno cose. E non parlo solo di cucinare, pulire, consolare, no. Le donne – addirittura – pubblicano romanzi, ricevono premi, fanno ricerca, vanno nella spazio, guidano colossi finanziari, vincono il Nobel. Pazzesco, eh? Era il 1928 quando Virginia Woolf, nel suo capolavoro Una stanza tutta per sé, diceva «sarei capace di scommettere che Anonimo, il quale scrisse tante poesie senza firmarle, spesso era una donna», denunciando così la pratica di autocensura a cui le donne erano state costrette a sottoporsi nel corso della storia pur di accedere al mondo accademico e intellettuale, di appannaggio esclusivamente maschile.
E arriviamo ad oggi, a distanza di quasi un secolo, dopo anni di lotte e rivendicazioni per il riconoscimento della donna come essere umano completo – perché di questo, in fondo, si tratta – non più limitato ai soli ruoli di cura e riproduzione. Arriviamo alla nostra società “inclusiva” e “paritaria”, almeno sulla carta, in cui le donne fanno cose, certo, e non hanno più bisogno di firmarsi con l’anonimo o adottare uno pseudonimo maschile – almeno non sempre! – ma in cui queste cose che le donne fanno continuano a subire una degradazione e invisibilizzazione costante nel linguaggio scelto per parlarne, nelle narrazioni veicolate ogni giorno da stampa, media, esperti e professori vari ed eventuali. Tra le pratiche più diffuse, l’omissione del nome, che scompare risucchiato dalla categoria “donna”. Le donne fanno cose, tante cose, tutte diverse tra loro: la notizia è proprio questa, sembrerebbe, buongiorno mondo e ben svegliato nel 2020. Sei sorpreso, vero? Anche noi.
Così, in lizza per il Nobel per la Letteratura, poi assegnato a Louise Glück, poetessa statunitense, c’erano Murakami e… alcune donne. Insomma, un po’ di strane comparse, tra loro interscambiabili, come doppioni di figurine troppo poco rare e autorevoli per attirare la giusta attenzione. Due donne, poi, vincono il Nobel per la Chimica. Ancora, una donna guiderà l’Organizzazione Mondiale del Commercio. E per non farci mancare nulla, tutte queste donne che inventano, studiano, scrivono, scoprono, sono anche – e forse innanzitutto – madri e mogli di qualcuno, si tiene a precisare. La carriera non le ha impedito di metter su famiglia, si scrive di Andrea Ghez, vincitrice del Premio Nobel per la Fisica insieme ai suoi colleghi Roger Penrose e Reinhard Genzel, presentata come «mamma e nuotatrice» nel titolo dell’Huffington Post.
E dall’altra parte, attraversando la fantomatica linea dello standard universale, ci ritroviamo nella terra dell’uomo, o meglio dell’umanità: qui vivono professori, ingegneri, ricercatori, esperti, scrittori, registi, poeti, geni. Hanno tutti un nome e un cognome, titoli da esibire, storie pazzesche da raccontare, di ispirazione e illuminazione per tutti. E tutte. Attorno a loro un’aura di sacralità si condensa, un “oooh!” di meraviglia scappa dalla bocca. Sono i volti e i nomi che, come santini e icone magiche, compaiono tra i diari di studenti e studentesse, sui muri della camera di aspiranti artisti e artiste, tra le pagine dei giornali. Sono gli abitanti della fantastica terra del Canone, e somigliano tanto a chi ha avuto il privilegio di definirlo ed erigerlo, quel canone, che a sua volta ha creato griglie, caselle, liste, archivi, bibliografie, cataloghi, riempiendo di sé musei, libri di testo, teatri, sale di congresso, laboratori. Identità, individui, protagonisti, soggetti, la norma, lo standard. Tra loro, timidamente, spunta ogni tanto una casellina o un box di approfondimento che parla di una donna, quella lì, bho, come si chiamava, non ricordo bene, vabè andiamo avanti non è così importante, se avete tempo leggete a casa.
Forse sto divagando, me ne rendo conto. Eppure questa faccenda qui mi tormenta dal momento in cui ho avuto, finalmente, accesso a certe consapevolezze che mi mancavano del tutto e che ho dovuto strappare con unghie e denti ad un mondo che non mi aveva dato strumenti per stracciarmi quel velo dagli occhi. Un velo che mi impediva di notare come nei libri su cui studiavo, nelle mostre che visitavo, nei film che guardavo, fossero così pochi i nomi e i cognomi attribuiti ad una donna. A 24 anni suonati ho iniziato a chiedermi: ma com’è che conosco così pochi nomi di scienziate, pittrici, poetesse, scrittrici, artiste, registe? È normale? Perché le mie icone e i miei modelli sono tutti uomini? Perché è così facile ed immediato, per me, donna, identificarmi in e lasciarmi ispirare da un modello maschile e non vale lo stesso al contrario? Ho iniziato così a guardare con più sospetto le pareti della mia stanza, le mensole della libreria, le pagine di diario. E ho realizzato che effettivamente un problema c’era, a partire da me. Da quel momento, non ho più osservato “neutralmente” bibliografie, archivi e recensioni, non è stato più possibile.
Mi sono resa conto che la scelta dei miei modelli non era davvero una scelta, semplicemente perché a monte operava una discriminazione inimmaginabile tra chi meritasse di entrare a far parte della rosa di opzioni e chi no. Mi sono arrabbiata tantissimo, una volta smascherato questo sistema: in primis in quanto essere umano, poi anche come donna, appartenente dunque a quella parte di umanità ancora esclusa dal canone, relegata ai suoi margini, salvo qualche caso sporadico. E credo che sia questo, in fondo, il cuore del problema di cui si diceva: la fatica con cui, ancora oggi, parliamo delle donne “che fanno cose” al di fuori dei canali del “destino biologico” scelto per loro, è la fatica di una società che appunto stenta ancora a credere che questo possa avvenire, reputandolo così eccezionale da sentire la necessità di ricondurre il fatto nella narrativa più rassicurante della madre-moglie (anche metaforicamente), o da dare assoluta rilevanza a quel “donna”, come fosse un’identità a sé stante e onnicomprensiva di nomi, storie, volti così diversi tra loro.
Ecco come opera, ancora oggi, quel dispositivo invisibilizzante di cui, in altri tempi, parlava Woolf. Oggi è certamente più frammentario e sfilacciato, non possiamo negarlo. Eppure continua ad agire, a liquefare soggettività ed esperienze particolari in quell’unica categoria, donna, che di per sé fa notizia. Privando le donne protagoniste di queste storie della loro personalità e dei loro percorsi unici e irripetibili e privando noi della possibilità di lasciarci raggiungere, ammaliare, ispirare dal loro esempio. E da questa faccenda, ve l’assicuro, usciamo tutti e tutte perdenti. Perché le donne hanno sempre e da sempre fatto cose: semplicemente, non abbiamo ritenuto utile raccontarlo.
Vi lascio con una domanda: quanti nomi di scrittrici, poetesse, registe, saggiste, ricercatrici, filosofe, scienziate, giornaliste, atlete conoscete? In quante sono state fondanti per la vostra formazione e crescita intellettuale, spirituale e umana? Se notate che sono poche, chiedetevi: sono sicur* che questo sia dovuto ad una mia preferenza consapevole o ci sono altri meccanismi, qui, da decostruire e mettere in discussione? Cominciamo da qui.
Immagine in evidenza: (da sinistra verso destra) Emmanuelle Charpentier e Jannifer Doudna, Premi Nobel per la Chimica 2020, e Louise Gluck, Premio Nobel per la Letteratura 2020
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