Il primo lockdown ha segnato un periodo di profonda transizione; un tempo sospeso in cui, all’interno dell’apparente immobilità dettata dalla paura, le tensioni viscerali delle nostre comunità sono esplose mostrando l’essenza instabile delle dinamiche relazionali e sociali in cui siamo immersə quotidianamente.
Per settimane intere tutta la vita si è concentrata all’interno delle mura domestiche, lontano dallo sguardo pubblico, nei metri quadrati di un mondo invisibile ed eppure così brulicante di contraddizioni.
Raccontare queste verità nascosta rappresenta un lavoro di ricerca intimo e complesso, sicuramente necessario. Farlo dal punto di vista femminile significa rompere il muro di omertà che avvolge l’anima della nostra società, irrimediabilmente stretta attorno al fascino macabro di un patriarcato mai sopito.
Il docu-film “Tutte a casa – Memorie digitali da un mondo sospeso”, prodotto dal collettivo omonimo attraverso il girato raccolto con i propri smartphone da più di duecento donne in Italia tra febbraio e maggio 2020, cuce un collage di storie al femminile che raffigurano l’immagine delicata e composita di questa esplosione di umanità nascosta nelle mura di casa.
Attraverso il lavoro delle registe Cristina d’Eredità, Nina Baratta ed Eleonora Marino, e le musiche oniriche della compositrice Silvia Cignoli, il social movie riesce nel delicato obiettivo di tracciare l’affresco instabile di un periodo che ha svelato molte delle distanze e disuguaglianze che incarnano la nostra contemporaneità.
Abbiamo incontrato la regista Cristina d’Eredità e la musicista Silvia Cignoli per scoprire insieme le radici di questo lavoro, cosa ha spinto più di duecento donne a raccontare pubblicamente la propria quotidianità in un periodo tanto surreale e dove prendono vita le note di sottofondo per una raffigurazione così intima e intensa.
Ciao Silvia, grazie per essere qui con noi. Prima di parlare del tuo lavoro con il collettivo “Tutte a casa”, ripercorrerei alcuni tratti della tua carriera e della tua musica. La tua arte nasce da una conoscenza classica della musica e in particolare della chitarra. Ora crei sonorità elettroniche che aprono spazi emozionali molto intensi e profondi. Cosa rimane della tua impronta classica in quello che componi oggi?
Silvia: Grazie a te Guglielmo, è un vero piacere. La musica classica mi ha lasciato un enorme imprinting. La chitarra classica richiede un coinvolgimento totale in termini di studio e approfondimento. Questa alchimia che si crea con lo strumento, è ricerca nel distillare il tocco perfetto di un suono morbido, suadente come il velluto o l’asprezza di un suono graffiante come roccia rugosa. Questa sensibilità molto fisica, alla ricerca del timbro che comunica una storia solo esistendo ed esprimendo la sua qualità emozionale, è la cosa che maggiormente mi rimane del mondo classico.
Sensazioni. La tua musica sembra staccarsi dal reale per sperimentare sulle possibilità della percezione. Come influisce la “realtà”, o quantomeno il tuo vissuto, su quello che componi?
Silvia: Non sono una persona particolarmente spirituale, o almeno non lo sono in maniera cosciente. Ma “sento”, “provo” e ricerco l’attimo estatico, di congiunzione ascensionale con il tutto, che porta con sé un brivido, a volte uno spaccamento interiore. Quella vibrazione, quando compare, mi suggerisce che la musica sta andando nella direzione giusta. “Bellezza” e “oscurità” possono colpire l’animo umano con eguale intensità e perdere la loro connotazione nel mondo sonoro che percorro, per diventare colori amalgamati della stessa contemplazione.
C’è un’anima sociale nella tua arte? Se si, di che tipo?
Silvia: Nel modo di praticare la mia arte c’è certamente un’anima sociale. Ho sempre prediletto lavorare con donne, che nel mio campo sono davvero una minoranza, ma ci sono e a parità di bravura la mia scelta è stata evidente col tempo. Per quanto riguarda i contenuti artistici, l’anima sociale li permea, più o meno volontariamente, più o meno esplicitamente. Nel mio primo disco solista il concept è in parte ispirato da un libro, “Terminus Radioso” di Antoine Volodine, ambientato in una steppa postnucleare, e da queste ispirazioni prende spunto per creare ambientazioni ampie e mutevoli, in cui il suono di qualche macchinario impazzito e immaginario rompe il magma vaporoso di un mondo pervaso dalle luminescenze radioattive. Talvolta sento che nella mia musica si esprime anche una sorta di solitudine positiva che sollecita il bisogno di connessione umana con sé stessi. Tutto ciò, più che una denuncia, è un lasciar emergere, una volontà di mettersi di fronte alle cose.
La mia esperienza come docente e come musicista mi ha poi portato a chiedermi come poter portare un certo tipo di musica più sperimentale alle/ai ragazz* ed ho così creato il corso IMPRO-VISIONE, un workshop dove lavoro principalmente con le/i giovani e dove sonorizziamo video, poesie e immagini e creiamo relazioni musicali e umane con gli altri compagni e compagne. A fine workshop registro sempre una maggiore sensibilità alle musiche “altre”, che a mio avviso, va di pari passo con l’accettazione del “diverso”, con il fatto di stare bene anche in situazioni non “standardizzate”.
In molti progetti mescoli le sonorità ambient al visuale, dando vita a connubi onirici che abbracciano più sensi – vedi “irid.” o “Arianna… il suon de bei lamenti. Drammatizzazione sonora in quattro stazioni”. Come avviene la creazione? È il suono che segue l’immagine o il contrario?
Silvia: Dipende dai contesti. Con il progetto “Arianna” (realizzato al fianco di Laura Faoro, Elia Moretti, Mario Mariotti, Carlo Centemeri e Paola Bianchi), lavoriamo in modo da rendere sempre la performance il più site-specific possibile, affinchè la narrazione musicale trovi specchio e spazio scenico per accompagnare la narrazione del mito. In altri progetti vi è un approccio lavorativo differente, ma il punto deve sempre essere che un linguaggio non deve accompagnarne un altro, ma muoversi in un continuo scambio sinestesico.
Arriviamo a “Digital Memories from a Suspended World”, il tuo ultimo disco, colonna sonora di “Tutte a Casa – Memorie digitali da un mondo sospeso”. Come nasce il progetto?
Silvia: Nel 2019 sono stata a Roma grazie ad una residenza artistica presso l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e lì, grazie ad uno degli organizzatori e alla conoscenza con una delle registe del collettivo Tutte a casa, è venuto fuori il mio nome per musicare un documentario al femminile sulla vita delle donne durante il primo lockdown italiano, intitolato, appunto “Tutte a casa – memorie digitali da un mondo sospeso”. Sono infinitamente grata alle registe per la fiducia che hanno posto in me, per me è stata una sfida bellissima riuscire a trovare una chiave compositiva che si allontanasse dalla musica sperimentale fino ad allora battuta, per ritrovare il mio sound in canzoni strumentali elettro-ambient o in brani dai generi musicali fino ad allora mai frequentati.
Hai visionato il girato del lungometraggio prima di produrre le tracce? Quali ispirazioni hanno guidato il tuo lavoro?
Silvia: Le registe Cristina d’Eredità, Nina Baratta ed Eleonora Marino mi hanno guidata inizialmente con una serie di videocall, mandandomi diversi spezzoni e prove di montato. Ci siamo scambiate qualche idea per diverse settimane nell’autunno 2019, poi a febbraio 2020 mi hanno consegnato il girato finito, con diverse reference molto puntuali che sono state utilissime per dare una direzione più veloce e mirata al lavoro. Una delle ispirazioni principali per le musiche è stata certamente lo scorrere del tempo, dilatato e sospeso del lockdown. Ma anche l’angoscia, il senso di irrealtà che pervadeva la mente. Il senso di liberazione e di gioco dei momenti quotidiani nei quali si trovava spensieratezza e infine la contemplazione della natura e dello spazio, vero o desiderato, fuori dalle proprie mura.
Entriamo nel vivo del lungometraggio. Il periodo del primo lockdown è sembrato un tempo sospeso, immobile. Nel silenzio delle case si è raggrumato invece un movimento di vite incessante e a tratti esasperante. Cristina, cosa ha spinto il vostro collettivo a intrecciare i fili di questo racconto?
Cristina: Siamo un gruppo di sedici professioniste del mondo del cinema e della comunicazione, nei primi giorni della quarantena ci siamo incontrate su un gruppo Facebook dedicato al cinema e abbiamo deciso di unire le forze, colte dall’urgenza di documentare il momento di crisi che si stava configurando. Così è nato il collettivo Tutte a casa e poi l’omonima associazione. Abbiamo messo al centro della nostra attività alcuni principi per noi fondamentali: la partecipazione, l’orizzontalità e la gentilezza.
La nostra sfida è stata quella di continuare a raccontare storie e lavorare nonostante la crisi, perciò abbiamo iniziato ad organizzare, produrre e dirigere un film a distanza, creando una vera e propria casa di produzione online tutta al femminile. Il 17 Marzo 2020 è uscita in rete la prima call pubblica rivolta alle donne, invitandole ad inviare video diari durante il primo periodo della recente emergenza sanitaria. Abbiamo raccolto 8.000 contributi video da più di 200 donne. Per finanziare una piccola parte delle spese del film abbiamo lanciato un crowdfunding che in pochi mesi è riuscito a superare la soglia prefissata dei 15.000 euro.
Grazie a questo contributo e alla fiducia che ci hanno dimostratoi i nostri sostenitori, siamo riusciti a chiudere il film che è andato in onda in prima serata l’8 marzo 2020 sul canale La7D. Una data importante per tutte le donne e per il nostro progetto, che si apprestava a compiere un anno.
La pandemia ha segnato un periodo di rottura in termini sociali, inasprendo distanze e sofferenze che nell’ordinario sembravano nascoste. Quali sono le disuguaglianze più grandi che vengono fuori dalle testimonianze video raccolte?
Cristina: Disuguaglianze di genere, ad esempio, nella gestione del surplus di lavoro che si è creato con il passaggio repentino allo smart working e disuguaglianze sociali, perché il lockdown non è stato uguale per tutti, ma fortemente connotato dalle condizioni socio culturali di partenza.
La tematica della violenza sulle donne, fisica e psicologica, è passato troppo spesso in secondo piano nella comunicazione di massa relativa al periodo di lockdown (e non solo). Quali sono i dati e le percezioni raccolte su questo tema nell’ambito del vostro lavoro?
Cristina: Nella nostra esperienza, il lockdown è stato un periodo di lavoro molto intenso per tutte le associazioni impegnate nella tutela delle donne. Sin da subito nel nostro film abbiamo sentito forte l’esigenza di dover raccontare questo aspetto, ma in quel momento è stato impossibile: si viveva in uno stato di emergenza reale e concreto. Per questo motivo non abbiamo mollato la presa e non appena si sono prospettate le riaperture, siamo tornate a contattarle e siamo riuscite a coinvolgere nel nostro racconto una donna che proprio durante il lockdown, grazie al sostegno dell’ass. Befree di Roma, è riuscita a svincolarsi da un’importante situazione di violenza psicologica e fisica.
Avete scelto di raccontare un periodo sociale tanto delicato e complesso utilizzando il materiale grezzo dei cellulari e poca post-produzione. Perché?
Cristina: L’idea di questo film è nata nel marzo 2020, quando tutta l’Italia si è bloccata a causa della pandemia di Covid-19. Durante l’isolamento forzato ma necessario che sperimentavo in quei giorni, riflettevo su come poter narrare i cambiamenti, le emozioni, i pensieri generati da quella condizione unica e ho pensato che il film partecipato avrebbe potuto offrire la possibilità di creare una narrazione collettiva. In quanto montatrice, sono naturalmente interessata alla creazione di una narrazione complessa a partire dal frammento e nella mia esperienza professionale ho avuto la possibilità di formarmi nella palestra creativa di TheBlogTv, creata da Bruno Pellegrini, che per primo ha fatto conoscere le possibilità espressive del web e della narrazione partecipativa in Italia. Infine, da antropologa, i discorsi sulla memoria mi hanno da sempre affascinata e penso agli archivi come delle vere miniere di bellezza da esplorare e rivitalizzare.
E dall’altro lato, quali sono state le motivazioni che hanno spinto più di 8000 donne a condividere video personali con voi? E quali sono state le reazioni più frequenti da parte loro una volta che hanno visto il lavoro completo?
Cristina: Con questo film abbiamo cercato di creare un racconto sincero, intimo e poetico della pandemia dal punto di vista delle donne e la nostra comunicazione si è sempre basata su un invito alla partecipazione, alla necessità di dover prendere la parola in un momento di crisi collettiva. In quel particolare momento della storia recente, in cui le nostre vite si sono fermate, molte donne – mamme, lavoratrici, giovani, anziane, bambine – hanno cercato uno spazio di riflessione senza mediazioni e hanno utilizzato il cellulare per riflettere sugli stravolgimenti delle loro vite.
Nel montaggio abbiamo cercato di mantenere la coralità di questa narrazione eliminando ogni possibilità di giudizio e di appiattimento su un punto di vista univoco. Il materiale che abbiamo ricevuto è di una ricchezza impressionante, spazia per stati d’animo molto differenti, vengono esposti punti di vista antitetici, sono frammenti di quotidianità che, come una creta, può essere soggetta a continue riconfigurazioni. È stato necessario approcciare questo materiale con un’idea narrativa estremamente solida e in questo è stato fondamentale il confronto quotidiano con le co-registe Nina Baratta e Eleonora Marino.
Per più di tre mesi ci siamo incontrate quotidianamente su Zoom e abbiamo visto insieme il materiale e poi discusso ogni passaggio; con la webcam puntata sulla mia timeline, abbiamo lavorato a distanza ma sempre gomito a gomito. È stata una grande esperienza! Ci siamo divertite moltissimo, abbiamo discusso, abbiamo riso, ci siamo commosse. È stato un grande esercizio di libertà creativa.
In termini di diritti, soprattutto delle donne, pensate che la pandemia sia servita a creare quantomeno una nuova consapevolezza sulle distanze e disuguaglianze che opprimono la nostra società?
Cristina: In molte donne queste consapevolezze esistono dagli anni ’70 dello scorso secolo, ma il cambiamento non sempre va di pari passo con la consapevolezza.
Se doveste elaborare un sequel del vostro primo lavoro, una seconda parte di “Tutte a casa”, cosa e come lo raccontereste?
Cristina: In questo momento, all’interno della nostra associazione stiamo sviluppando una serie televisiva, per continuare a valorizzare il vasto archivio di memorie digitali che abbiamo creato, ma soprattutto per tornare ancora una volta a riflettere sui punti di vista di tante donne che hanno impresso un forte cambiamento nelle loro vite e nelle loro esperienze proprio a partire dal lockdown.
Non vediamo l’ora di vedere e vivere anche questo prossimo passo del vostro lavoro. Grazie, davvero.