Più del sorriso largo e acceso, più delle mani affusolate e sempre in movimento, più del fare disinvolto capace di lasciare addosso un sentore di casa sin dal primo saluto, colpiscono immediatamente le pupille, così profonde e lucide, come se cercassero costantemente di mettere a fuoco particolari del mondo intorno da sversare sulla tela.
Danso è un omone slanciato e agile di origine gambiana che, come altri centinaia di migranti persi nel sottobosco inaccessibile dell’accoglienza italiana, ha trovato casa nella piccola parrocchia di Vicofaro a Pistoia e un nuovo fratello maggiore nella figura dirompente di don Massimo Biancalani.
Lo abbiamo conosciuto durante una visita nella chiesetta di provincia divenuta rifugio di prima emergenza e subito siamo rimasti ammutoliti dalla sua storia di resilienza.
Ha viaggiato per tre anni con pochi spicci in tasca e indicazioni vaghe verso un effimero “nord”, lasciandosi alle spalle un villaggiucolo in paglia dell’area rurale affamato da decenni di conflitti e le mani speranzose di una mamma occupata a far sopravvivere i fratelli più piccoli.
Ha attraversato il deserto del Sahara, i posti di blocco della polizia maliana e le violenze di quella libica. Ha conosciuto il carcere insensato di Tripoli con l’accusa di essere troppo scuro in pelle per raggiungere l’Europa bianca e troppo povero per vivere libero nella sua Africa.
troppo scuro in pelle per raggiungere l’Europa bianca e troppo povero per vivere libero nella sua Africa.
Raggiunge le coste siciliane dopo quattro giorni di onde in burrasca, sentendo annacquarsi le urla dei compagni di attraversata negli sbuffi di un mare che non ha pietà per il passato di chi lo attraversa.
Finalmente in Italia, scopre che il sogno accarezzato per anni tra viaggio e prigione è nulla più di un sogno, una custodia dietro cui si cela una realtà tristemente avvinta nel caporalato e la discriminazione. Lavora in fabbrica senza ricevere uno stipendio “tanto è abbastanza se hai un boccone da mangiare”, abita i marciapiedi scappando all’accusa di essere clandestino, si rifugia a casa di sconosciuti divenuti fratelli nella necessità.
Finalmente a Vicofaro scopre un luogo in cui le voragini di un passato recente inciso sulla pelle possono riposare, trovare pace, divenire racconto di una storia ben più grande che coinvolge milioni di persone ogni giorno. Vicofaro è un porto costantemente aperto; migranti, senza dimora, donne vittime di tratta, entrano nell’androne della parrocchia alla ricerca di un tetto sulla testa e col tempo scoprono un angolo in cui sfuggire dalla paura di dover giustificare il colore della propria pelle, il valore della propria storia.
Qui Danso avverte tra le dita qualcosa che gli appartiene da sempre ed eppure non aveva mai conosciuto prima: la pittura. Finiti i turni di attività in parrocchia tra cucina e sartoria, si nasconde tra le pile di colori a olio del laboratorio creativo e comincia a dare forme e profondità alla propria storia.
Inizia con la leggerezza del gioco, come un tempo di fuga per alleggerire la pressione di una vita ingarbugliata tra un permesso di soggiorno in scadenza e la necessità di un lavoro stabile. Col tempo il gioco prende le forme di una necessità viscerale, di un istinto che lo porta a testimoniare su tela il cammino sconquassato che lo ha condotto fin lì.
“Dipingo cosa ho passato, cosa ho visto, dipingo perché la mia storia è come quella di tantissime altre persone, serve raccontare e fare sapere quello che succede a pochi chilometri da qui”.
Tra le cromie accese delle sue tele ho trovato le mani della madre lasciate andare anni prima nella sabbia ocra del Gambia, le facce coperte dai teli degli autisti nel deserto, le gabbie ossute della prigione libica in cui è rimasto rinchiuso per mesi. Soprattutto, ho visto riflessi i suoi occhi densi di curiosità, accesi come una perla e vivi nonostante la morte che hanno imparato.
Abbiamo conosciuto la sua collezione di quadri e ascoltato i racconti dietro a ogni linea di colore, riflettuto insieme sui meccanismi illogici dei confini e osannato l’istinto utopico che porta a superarli. Molte delle storie sono rimaste mute, nascoste in un quadro che non aveva bisogno di sinossi.
Nei racconti di Danso e nella sua arte fiorita tra il marciume dell’emarginazione, abbiamo assaporato il miracolo più grande di un luogo capace di farsi incarnazione di un gesto semplice ed eppure rivoluzionario come l’accoglienza. A Vicofaro non si dà solo un letto tra i banchi della sagrestia e un pasto caldo seduti di fronte all’altare in marmo a chi fino a poche ore prima era abituato a ricevere indifferenza tra le pieghe dei marciapiedi.
A Vicofaro si dà anche quel minimo di umanità che serve per sentirsi vivi, amati e presenti agli altri.
È in questa umanità ritrovata, fatta di ascolto e spazi per il riposo, sostegno materiale e indirizzo psicologico, che le mani imparano a raccontare quello che le labbra non sanno più nominare. È semplice e ordinaria umanità.
Il fatto che questa umanità oggi abbia l’odore della follia dà il segno di quanto il tempo presente abbia sradicato la misura delle cose. Vederla incisa nelle pupille attente di Danso è la speranza che serve per credere che domani tutto possa cambiare.