– di Nicola Valente
Nell’autunno del 2019 ci siamo imbarcati per un’avventura sudamericana che ci ha portati a vivere in prima persona l’inizio della guerra civile che sta tutt’ora sconvolgendo la Bolivia. Questo testo è estratto dal diario di bordo che ho deciso di tenere dall’inizio alla fine del nostro viaggio. Non ha nessuna pretesa, se non quella di mantenere vivo il ricordo negli anni di quei posti lontani. Guglielmo mi ha chiesto di poterne usare un estratto per Aware, ed io ne sono lusingato. È la fotografia di un paese smarrito, che cerca la sua strada.
12/11/2019, 23:25 Cusco, ostello Wild Rover, Perù, Giorno 12
È un sonno agitato quello che mi ha portato il nostro ritorno a La Paz. Sogno che mia sorella è venuta a prendermi e che improvvisamente una folla inferocita sfonda a bastonate le grandi vetrate dell’aeroporto. Nel sogno la prendo per mano e inizio a correre, cercando una via di fuga sulla pista di atterraggio, mentre tutt’attorno la gente si massacra. Mi risveglio con la spalla bloccata ed una sgradevole sensazione di disagio. Sono le 4, attendo il ritorno di Luciano e Guglielmo. Le guardie dell’aeroporto, con elmetti e manganelli, sembrano meno pericolose di me. Alte un metro e venti, con le giacche troppo grandi per le loro corporature minute, danno l’impressione che se la daranno a gambe appena la situazione dovesse peggiorare. Verso le sei arriva una camionetta piena di soldati e due blindati armati di mitragliatrici. Sfilano davanti l’entrata ma non si fermano. Non so dove sono diretti. Il tempo passa, fumiamo sigarette e proviamo la Cocandina, una bevanda a base di foglia di coca che dovrebbe togliere il mal d’altura. Il sapore è effettivamente quello delle foglie, ma decisamente troppo zuccherata. Dopo pochi sorsi disgusta.
Finalmente li vediamo di ritorno. Luciano è agitato. Dice che non possiamo immaginare quello che c’è in centro. Ma la missione è compiuta e ci prepariamo a levare le tende. Carichiamo tutto e finalmente vediamo le strade di El Alto. Non c’è nessuno. Sembra una città fantasma. Le recinzioni sono state sradicate per creare barricate improvvisate. Grandi mucchi di spazzatura ancora fumante sono state date alle fiamme. Ovunque i marciapiedi sono stati spezzati per essere utilizzati come sassaiole dai rivoltosi. Sono scene da Siria o Afghanistan. Il tassista ci porta fino a Rio Seco, facendo lunghe deviazioni ed evitando i punti dove potrebbero già essersi radunati i ponchos rojos, i più oltranzisti dei ribelli. Grande è la nostra delusione quando vediamo il grande terminal dei bus completamente chiuso e sbarrato. Dentro, nessuno. Non sappiamo che fare. Il tassista ci dice che c’è un ponte più ad ovest, da dove la gente cerca passaggi per andare via. Lui può portarci fino a lì. Raggiungiamo il posto. Sembra che tutta la gente di El Alto si sia radunata qui. Tutti ammucchiati sui lati della strada, uomini con bustoni di plastica e donne con i loro colorati scialli, pieni di vestiti, viveri e bambini urlanti. Al centro della strada si ammucchiano i taxi ed i minivan.
Pare che in città sia finita la benzina e quelli che ancora ce l’hanno danno passaggi per prezzi esorbitanti. Iniziamo a fermare chiunque sia motorizzato. La gente litiga con gli autisti per i prezzi da aguzzini. Il nostro taxista ci trova un uomo in grado di portarci a Desaguadero, la città al confine con il Perù. Un tipo bassetto, scuro e con i labbroni, sulla cinquantina. Ci mostra la sua auto, una station wagon che ha visto tempi migliori. Ci accordiamo per 80 boliviani a persona. Carichiamo tutto in auto. Guglielmo ed Emanuele sono nel bagagliaio. L’uomo ci dice che deve passare a salutare i suoi figli. Si ferma davanti ad una porta di lamiera, oltre si intravede un piccolo giardinetto interno con un vecchio furgoncino. Due bambini si affacciano con il volto intimorito. L’uomo il rassicura e gli dice qualcosa che non capiamo. I bambini ci guardano spaventati. Li salutiamo per tranquillizzarli. Rispondono timidamente. Partiamo dirigendoci verso il ponte, quando si vede una folla con bandiere e bastoni. Alle 6 del mattino il ponte è già stato occupato. Il nostro guidatore che noi intendiamo chiamarsi Santiago prende una svolta a sinistra e si avvia verso le periferie più sperdute di El Alto.
Non ho mai visto luoghi più poveri di questi. Basatura + perros = rabia leggiamo su diversi muri. Un bambino ci guarda passare inespressivo. La puzza è tremenda. Si cammina su una strada di spazzatura praticamente. Santiago ci spiega che stiamo costeggiando il fiume. Ci dovrebbe essere da qualche parte un guado che ci permette di superarlo e continuare la nostra strada. Branchi di cani circondano l’auto ringhiando ed abbaiando. Un minivan pieno di boliviani in fuga si mette al nostro seguito. I minuti passano e di questo guado nemmeno l’ombra. Solo case mezze costruite, ma comunque abitate e piccoli ponti di ferro e legno, adatti solo per le persone. […] L’auto si impantana. Scendiamo a spingere. Uscire dall’auto mi dà l’impressione di perdere l’unico scudo sicuro di cui disponiamo. Spingiamo con tutte le nostre forze. Sgommando Santiago toglie l’auto dal pantano. Luciano ed Andrea vengono coperti da quello che dall’odore non credo sia fango. Il minivan se la cava meglio di noi. Dopo quasi un’ora di ricerca troviamo un pastore con alcuni alpaca che si aggira per questo luogo tossico. Ci spiega che c’è un guado a meno di 1 km. Lo raggiungiamo e con un accelerata al momento giusto riusciamo a valicarlo. Ci esaltiamo, ed il morale risale, sebbene il viaggio sia appena iniziato.
Io mi trovo affianco Santiago e vedo attraverso i palazzi un grande fumo nero in lontananza. Chiedo a Santiago se sa cos’è. Mi risponde di no, probabilmente una fabbrica o qualcosa del genere, ma non me la bevo. Ho già un brutto presentimento. Scopriamo che sono dei blocaderos e che quella è l’unica via di uscita in quella parte di El Alto. Sono una trentina, la maggior parte ragazzini. Molti con il volto coperto ed armati di bastoni. Alcuni urlano e gridano e, quando ci vedono, non sembrano amichevoli. […] Scene che ho visto solo in televisione. Dico a Guglielmo di scambiarci di posto. La sua lingua sciolta e la conoscenza dello spagnolo potrebbero essere fondamentali. Io mi metto nel bagagliaio, mentre lui e Santiago vanno a parlamentare. […] Quelli […] iniziano a camminare attorno l’auto, come squali con le prede. Mi disturba il fatto che il più grande di loro abbia sedici anni. Questo fatto tranquillizza Emanuele, ma non me. I ragazzini sono più facili ad entusiasmarsi, esaltarsi e a farsi sfuggire di mano la situazione. Sembra si riesca a trovare un accordo per 200 boliviani. Guglielmo tenta di opporsi visto che si era deciso per soli 150, ma un ragazzotto più prepotente si mette in mezzo. Emanuele sbotta con Guglielmo, non è il momento di mettersi a tirare sul prezzo e andiamo via con 200 boliviani in meno.
Da qui al Perù sono poco più di 100 km. Normalmente basterebbero un paio d’ore d’auto per raggiungere il confine, ma in questa situazione è tutto un incognita. Il nostro procedere viene interrotto ripetutamente. Ogni comunità ha chi più, chi meno, contribuito al blocco delle strade. All’incirca ogni 7 o 8 km troviamo un blocco. Alcuni composti da tre, quattro persone, ci fanno passare, evitando di cercare guai. Altri vogliono soldi. Con altri ce la caviamo acquistando qualche bottiglia di Coca-Cola. Troviamo un blocco molto sostanzioso a Pucara. C’è addirittura una fila di veicoli tra camion e furgoni. Scendiamo e ci mettiamo a parlare con i blocaderos. Qui sembrano molto più pacifici ed anziani. Scherzano sulla nostra altezza e ci chiedono com’è l’Italia. Gli rispondo che è piccola, ma molto bella. Ripartiamo senza problemi. Incrociamo un grande gruppo di ponchos rojos che in maniera sorprendentemente professionale ci controllano i passaporti per vedere se siamo veramente turisti italiani. Santiago e Guglielmo oramai hanno imparato la parte da recitare. Siamo solo turisti che vogliono tornare a casa, Santiago ci sta aiutando per spirito di carità, non c’entriamo niente con questa guerra sebbene l’appoggiamo. Anche i nostri nonni hanno combattuto per la libertà. L’impressione generale è che questa gente delle campagne non abbia ben chiaro per cosa si stia battendo. Prima protestavano contro Morales, ma ora che è stato destituito sono confusi anche più di noi. Mi fanno un po’ tenerezza. Immagino credano di avere la forza per cambiare qualcosa. Osservo triste un auto della polizia bruciata e buttata a lato della strada. Probabilmente tutto ciò gli tornerà addosso come un boomerang.
Alla nostra destra finalmente si staglia il profilo azzurro del lago Titicaca, con i suoi scorci montani e l’alta erba dorata a circondarlo. Di una bellezza sbalorditiva. Siamo oramai vicini al confine. Ma un nuovo inconveniente ci taglia la strada per il traguardo. Questa volta i blocaderos sono stati più radicali. A 4 km dalla città di Desaguadero, troviamo un accampamento di boliviani. Non è possibile passare. Prima di tutto per la totale intransigenza della gente del posto. E soprattutto per i grandi massi che hanno messo a bloccare la strada ed impediscono completamente il passaggio. Stavolta siamo stati fermati. Smontiamo le borse e decidiamo di proseguire a piedi, non siamo troppo lontani. Salutiamo Santiago, che in quest’occasione si rivela chiamarsi in realtà Marcelo (non sappiamo per quale fraintendimento sia uscito il nome Santiago). Lo paghiamo il giusto prezzo per aver rischiato con noi in questa impresa. Io personalmente gli regalo il mio orologio che oramai non usavo più da tempo. Spero l’abbia dato ad uno dei suoi figli. Zaini in spalla e avanziamo. Alcuni ci osservano maligni scavalcare le loro barricate. Altri ci prendono in giro, altri sghignazzano. Sono molto più di noi, se diventassero violenti ce la vedremmo male, ma li ignoriamo e nessuno si azzarda ad avvicinarsi alla nostra formazione. Non mi fanno paura. Sembrano dei bulletti, ma non hanno veramente il coraggio di affrontarci.
Dopo 1 km l’orizzonte svela la città di Desaguadero. Un cartello dice 3 km al confine, ma noi troviamo un sentiero di campagna che taglia, passando lateralmente alla cittadina. Mi ritrovo ad osservare con Guglielmo come questa via rialzata faccia da spartiacque tra il paradiso e l’inferno. Da un lato il lago Titicaca, mozzafiato, dall’altro i ghetti di Desaguadero, con acqua melmosa e case traboccanti di immondizia. Sembra che il confine sia oltre un ponte che attraversa l’emissario del lago. Ma un maledetto ultimo ostacolo ci sbarra il passo. Il sentiero è chiuso da una cancellata d’acciaio. Potremmo tornare indietro ma siamo esausti. L’alternativa è aggrapparci alla rete che ci divide dal confine e raggiungere la ringhiera del ponte. Il rischio è di cadere di sotto nel fiume. Saldi nei piedi quanto nelle mani afferriamo la rete e arriviamo fin sul ponte, scavalcando i suoi fili spinati. Siamo al confine. Adesso so come si sentono gli immigrati che cercano salvezza. Guardiamo il grande cartello che dice allegramente Welcome in Perù! Anche su questo ponte come in ogni altra parte della Bolivia, signore anziane vendono qualunque tipo di prodotto.
Superiamo quel limite felici di avercela fatta.