Ieri 10 settembre è stata la Giornata mondiale per la prevenzione al suicidio. Quello della salute mentale è un tema che qui su Aware ci sta molto a cuore e che desideriamo approfondire in uno spazio apposito, un luogo intimo d’incontro e condivisione da costruire insieme con cura e fiducia.
La depressione è la malattia della nostra epoca, più diffusa di quanto possiate immaginare. Probabilmente nella vostra vita c’è almeno una persona che sta combattendo questa battaglia e magari nemmeno ve ne siete accorti. Oppure quella persona sei proprio tu ora che stai leggendo.
Su depressione e malattie mentali pesano ancora tanti pregiudizi e stigmi che vanno a rinforzare quell’idea tossica di una società divisa tra forti e deboli, normali e anormali, sani e malati, utili e inutili… inutili per le logiche inumane con cui abbiamo costruito le nostre società, inutili in un mondo in cui il valore dell’individuo è misurato sulla produttività, incartato necessariamente nel brand del vincente, definito a priori da una serie di qualità considerate le uniche ad aver peso, decise e rinforzate dal sistema stesso e funzionali ad esso.
Di tutto ciò si muore. Si muore nel silenzio, si muore perché si decide di morire, ma c’è sempre un’invisibile mano dietro – che nessuno vuole forse vedere – e che contribuisce spesso a dare la spinta finale. È la mano dell’indifferenza, dell’ignoranza, della cattiveria gratuita. Di fronte alla notizia di un caso di suicidio, spesso assistiamo ad un fiume di giudizi e parole superficiali, parole spesso gonfie d’odio e cinismo: c’è chi parla di “selezione naturale”, chi di egoismo, chi di codardia. Tra queste parole, però, emerge anche una punta d’angoscia. Scatta una sorta di meccanismo autodifensivo volto a rimarcare una linea invalicabile, a definire inequivocabilmente la differenza abissale tra “noi” e “loro”, forse nel tentativo di autoconvincersi che davvero sia una questione di vincenti e perdenti, coraggiosi e codardi.
Continuo a pensare che in molte persone vi sia la paura di fondo di poter riconoscere nell’altro, in chi compie un gesto così “estremo”, un loro simile. Non si vuole riflettere con maggior profondità perché significherebbe anche metter in discussione se stessi e chiedersi: potrebbe capitare anche a me? Oppure: ho qualche responsabilità verso chi mi circonda? Troppo spesso questa responsabilità viene eliminata dal nostro orizzonte, eppure dovremmo interrogarla ogni giorno, senza sosta.
Scegliamo con cura le azioni e le parole, ovunque siamo, perché non sappiamo chi abbiamo davanti. Potremmo prendere come “regola” che diriga il nostro rapporto con gli altri quella che ci vuole solidali e in ascolto, impegnati a supportarci e coltivarci reciprocamente, piuttosto che distruggerci o aggiungere sofferenza in un mondo che ce ne addossa già tanta. Sarebbe un inizio. Sarebbe già un vivere più consapevole, più responsabile. Anche nel mondo virtuale.
Non tutte le malattie sono visibili dall’esterno. Un’anima spezzata, uno spirito piegato forse sono più difficili da vedere, ma si può, se impariamo a farlo. Per far questo, occorre recuperare quella facoltà un po’ dimenticata dalla nostra epoca individualista e che pur fa parte costitutivamente dell’essere umano: l’empatia. Qui vogliamo esercitarci a farlo, dando spazio al nostro vissuto personale e alle storie di chi si trova a combattere ogni giorno contro lo stigma, in prima persona o per i propri cari.
E a te che hai combattuto o stai combattendo, vorrei dire di continuare a farlo, perché il mondo ha bisogno del tuo contributo, della tua unicità e di tutto quello che tu e solo tu saresti in grado di essere e fare. Non è poco.