Strano come il mondo riesca a glorificare e lasciarsi ammaliare da storie di Capitani che, in cerca di fama e fortuna, conquistano regni e distruggono civiltà. A loro innalziamo statue, su di loro scriviamo libri e facciamo film.
Strano come riusciamo a farci piacere – e con che foga! – Capitani “influencer”, di quelli che postano foto di nutella mentre la gente muore in mare, che mettono alla gogna ragazzine sui social network, che istigano tifo da stadio e fanno gli impavidi quando c’è da mettere un selfie o scrivere l’ennesimo tweet odioso, mentre poi invocano l’immunità per sottrarsi a processi.
Davvero incredibile, poi, come riusciamo ad odiare bene qualcuno che non parte per spirito d’avventura o di conquista, ma per salvare vite umane; qualcuno che non è sui social a proporre concorsi a premi, ma tra le onde a cercare anime da soccorrere; qualcuno che compie una scelta e poi se ne assume le responsabilità, senza sottrarsi al giudizio.
A quest’ultima categoria riserviamo auguri di morte e stupro, invochiamo galera eterna, ci scagliamo contro con la furia che solo una persona che odia profondamente se stessa può riservare all’altro essere umano.
In che fogna siamo caduti?
Quando è successo?
Come è successo?
Perché odiamo con così tanta ferocia chi salva delle vite e inneggiamo invece a gente che con quelle stesse vite gioca, come fossero pacchi scomodi di cui sbarazzarsi?
Forse perché il mondo è stato abituato a quei Capitani lì e non è ancora preparato a pronunciare, invece, la parola Capitana. Forse questa parola esiste ma in fondo non esiste, forse evoca qualcosa che ancora ci disturba profondamente.
L’odio che si è riversato su Carola Rackete, però, non definisce lei. Ma tutti gli altri.
Lei resta una Capitana, gli altri al massimo follower di un influencer che si spaccia per Capitano.
E la differenza è tanta.
Illustrazione: Paola Formica