Alla notizia delle dimissioni e della fuga di Evo Morales sono scoppiati scontri in tutto il paese. La presidente ad interim Jeanine Aňez ha approvato un decreto che solleva dalla responsabilità penale le forze armate in caso di legittima difesa. Da allora si sono registrate almeno quindici vittime e decine di feriti. In Parlamento trattano per una nuova tornata elettorale ma i rappresentanti del Movimento al Socialismo chiedono il ritorno di Morales.
Le principali città della Bolivia sono al collasso. La Paz, circondata dai blocchi dei protestanti affini all’ex presidente Morales e incendiata dai falò dei cittadini in strada, comincia a scarseggiare di viveri e benzina, mentre nella gemella cittadella di El Alto proseguono quotidianamente gli scontri tra manifestanti e rappresentanti della polizia. Nei dintorni di Cochabamba, a Sacaba, capitale del Chapare, nella notte di venerdì sono stati uccisi dalle forze armate nove manifestanti vicini al Movimento al Socialismo (MAS) di Morales nel corso di scontri durissimi. Altre due vittime, questa volta vicine all’opposizione, si sono registrate nei giorni precedenti a Montero, nel dipartimento di Santa Cruz, durante le lotte che hanno visto i rappresentanti dei gruppi civici anti-Morales affrontare gli affini all’ex-presidente. A Senkata, nei pressi di El Alto, sei protestanti sono stati uccisi mentre tentavano di sabotare le operazioni di rifornimento di carburante organizzate dalla municipalità per dare respiro alle attività della zona. Centinaia sono i feriti e le persone arrestate dalle forze dell’ordine che negli ultimi giorni hanno imposto un clima militarizzato nei principali centri urbani.
La situazione è precipitata il 10 novembre scorso con la dichiarazione di dimissioni di Evo Morales Ayma, identificato dal Tribunale elettorale come il vincitore delle presidenziali con più di 10 punti di vantaggio sull’avversario centrista Carlos Mesa del partito Comunidad Ciudadana (CC). La scelta è arrivata a seguito delle pressioni del capo delle forze armate boliviane (FFAA), William Kaliman, e della pubblicazione, nello stesso giorno, dei risultati della revisione sullo scrutinio operata dall’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) che corroboravano i sospetti di frode avanzati da opposizioni e gruppi civici in piazza da settimane. Alla divulgazione della notizia, accompagnata dalla fuga di Morales in Messico come rifugiato politico, molti sindacati di minatori e cocaleros, oltre che rappresentanti del MAS e campesinos dell’altipiano, sono insorti al grido di «Ahora si, guerra civìl!», denunciando un presunto colpo di stato architettato dalla destra boliviana con l’appoggio di governi esteri.
Da questo momento, il caos. Nelle città di La Paz, El Alto e Cochabamba, ai numerosi saccheggi e incendi che hanno accompagnato le proteste filogovernative, i militari, scesi in piazza in assetto antisommossa al fianco della polizia, hanno risposto dando vita ad un clima da guerriglia urbana a suon di gas lacrimogeni, cariche e proiettili di plastica. I cittadini si sono organizzati per vigilare sulle proprie case con ronde notturne autogestite fino all’alba (vigilias). Tutt’ora, le strade di giorno sono deserte, il silenzio è rotto dagli scoppi di dinamite dei minatori e l’odore acre dei gas lanciati dai militari continua a impregnare l’aria fino ai paesi circostanti. Uscite ed entrate dei centri urbani sono bloccate da barricate di tronchi, sassi e pneumatici in fiamme. I pochi mezzi che si azzardano a circolare sono presi d’assalto e incendiati. I fortunati che riescono a convincere i comitati delle autorità istituiti ai blocchi e superare i check-point rustici, si ritrovano a dover pagare fino a 200 boliviani (ca. 25 euro) come «contributo a favore della causa». Chi viene preso a lavorare rischia il linciaggio a suon di bastonate. Nell’altipiano la situazione è ancora più tesa e i campesinos hanno trasformato i forconi in armi della resistenza. Ad acuire il clima da guerra civile ha contribuito la diffusione di alcuni video in cui militari ed esponenti delle opposizioni bruciano la bandiera whipala, simbolo della resistenza indigena, un gesto che dalle popolazioni native è stato interpretato come inconfutabile prova della volontà di cancellare qualsivoglia diritto acquistato dalle stesse durante i tre mandati del presidente aymara.
A seguito delle dimissioni del vicepresidente e dei presidenti di Camera e Senato, il potere è stato conferito ad interim alla vicepresidente del Senato Jeanine Aňez del partito di minoranza Unidad Democrata (UD), in applicazione delle previsioni costituzionali che la identificano come unica figura qualificata a ricoprire la carica, previa approvazione del Parlamento. La proclamazione parlamentare è avvenuta lo scorso 12 novembre a seguito di votazioni tuttavia viziate dalla mancanza del quorum legale, dal momento che gli esponenti di maggioranza del MAS avevano abbandonato l’aula in segno di protesta. Nonostante la grave illegittimità, il capo delle forze armate e il presidente del Tribunale Costituzionale hanno approvato la proclamazione così consacrando la nascita del nuovo governo, dalla stessa Aňez definito “a termine” e vincolato all’obiettivo di nuove elezioni nel periodo massimo di tre mesi. Le ombre legali sulla sua proclamazione non hanno fatto altro che indurire la rabbia dei sostenitori di Morales e rafforzare la convinzione di assistere ad un golpe. Tra i primi atti della presidente del governo boliviano, oltre al riconoscimento di Juan Guaidò come primo ministro venezuelano e il ritiro dell’ambasciatore boliviano filo-Morales a Madrid, si è registrata l’approvazione di un decreto urgente che solleva esercito e polizia da ripercussioni penali per i reati commessi in stato di legittima difesa durante gli scontri. Questo atto, definito anche dalla Commissione Interamericana per i Diritti Umani (CIDU) come un «decreto preoccupante», ha dato ulteriore spinta all’ondata di violenza in tutto il paese.
Nella giornata di venerdì ci sono stati duri scontri nella strada che collega Sacaba a Cochabamba, dove i militari hanno bloccato con la violenza un gruppo di manifestanti del MAS, per la maggior parte cocaleros, diretti verso la città per protestare contro l’insediamento del nuovo governo. Al termine degli scontri gli ospedali México e Viedma del capoluogo hanno contato almeno 115 feriti e nove morti. Il rappresentante della Defensoria del Pueblo, Nelson Cox, ha definito la condotta dei militari «una repressione violenta, non uno scontro», puntando il dito contro la forza sproporzionata utilizzata con il fine d’impedire la prosecuzione della marcia. Di contro, il ministro della Difesa, Arturo Murillo, ha denunciato l’utilizzo da parte dei manifestanti di armi e dinamite, definendo l’atteggiamento delle forze dell’ordine «una risposta alla minaccia» rappresentata dai cocaleros. Martedì nuovi scontri hanno infiammato la zona di El Alto a due passi da La Paz. Per allentare la morsa dell’assedio, le autorità municipali hanno predisposto un rifornimento straordinario della cisterna centrale degl’idrocarburi nella stazione di Senkata. All’arrivo della colonna di camion scortata dai mezzi militari, qualche centinaio di manifestanti ha chiuso il passaggio tentando d’impedire le operazioni di carico e scarico. La risposta delle forze armate è stata estremamente violenta, con cariche, lacrimogeni e spari. La Defensoria del Pueblo riporta la morte di almeno sei protestanti e di più di una trentina di feriti. Il ministro Murillo da parte sua nega l’utilizzo delle armi da parte delle FFAA.
Alla luce del clima incandescente che si respira nel paese, i deputati e senatori del MAS hanno sospeso le sedute dell’Assemblea Legislativa auspicando «la creazione di un clima di dialogo e pacificazione». Intermediari dell’Unione Europea e rappresentanti della Chiesa Cattolica in queste ore stanno intercedendo nei negoziati tra le due fazioni affinché si raggiunga una composizione pacifica del conflitto. L’unica soluzione ravvisabile allo stato attuale sembrano essere nuove elezioni. Tuttavia, perché venga indetta una nuova tornata elettorale è necessario eleggere un comitato elettorale ex novo (quello attuale è interamente indagato per frode elettorale) e l’approvazione con la maggioranza del Parlamento, in mano ai rappresentanti del MAS che non hanno dato ad intendere una volontà positiva in questo senso. A complicare la situazione c’è stata inoltre la pubblicazione da parte del ministro Murillo di alcune registrazioni telefoniche in cui l’ex presidente Morales, direttamente da Città del Messico, incita i rappresentanti del proprio partito a promuovere la resistenza armata contro il “governo golpista”.
Dall’altro lato, la presidente Aňez, nell’ottica di una pronta riconciliazione nel paese, ha autorizzato un salvacondotto per la figlia di Morales, Evaliz, e la senatrice del MAS, Marìa Inosenta Poňe Poichee, da giorni ospitate come richiedenti asilo presso l’ambasciata del Messico, verso lo stesso stato centroamericano in cui si trova l’ex presidente. La speranza è che questo gesto possa rappresentare un’avvisaglia di riconciliazione tra le parti in conflitto. Nel caso in cui non dovesse trovarsi un accordo tra i due partiti, la presidente Aňez potrebbe procedere con la proclamazione di nuove elezioni per decreto presidenziale, così violando nuovamente il dettato costituzionale.
In ogni caso i punti di domanda sull’argomento restano ancora molti: sarà permessa la eventuale ricandidatura ad Evo Morales? Si riuscirà in tempi brevi a ricomporre il comitato del Tribunale elettorale, la cui nomina spetta ad un Parlamento mai come ora diviso e frammentato? Quali garanzie saranno offerte perché le nuove elezioni siano realmente trasparenti? Tutte domande che apparentemente non si portano dietro alcuna risposta. Nel mentre, La Paz ed El Alto stanno soffrendo una situazione di crisi che sembra ricordare gli stenti patiti nei conflitti del 2003 e 2005. I seguaci del MAS hanno annunciato di voler continuare con il cosiddetto “Cerchio di Tupac Katari”, eroe mitico parte della storia indigena boliviana, famoso per aver assediato per mesi la capitale andina governata dagli spagnoli durante la seconda metà del XXVIII secolo. Bloccando con materiali di fortuna qualsiasi ingresso alla città si stanno impedendo i rifornimenti di alimenti e idrocarburi. Le due città si sono trasformate in campi di guerriglia, spoglie e stanche. Un chilo di carne è arrivato a costare più di 100 boliviani (ca. 15 euro), una cifra spropositata rispetto agli standard del paese. I supermercati e i negozietti di alimentari si sono ridotti a cimiteri di scaffali vuoti. Le fila alle (poche) mense gratuite rimaste attive crescono di giorno in giorno fino ad essere diventate raduni lugubri fatti di cholitas e piccoli affamati al seguito. Le strade svuotate danno al paesaggio un filtro d’irrealtà.
La preoccupazione più grande è nell’apparente mancanza di una soluzione nel breve termine. Le notizie che giungono ogni giorno danno il polso di un paese instabile e profondamente diviso. La speranza è tutta in una composizione pacifica delle istanze delle due parti in lotta. Il ruolo della Aňez, eletta sotto i peggiori auspici, è di cruciale importanza nel percorso verso una riconciliazione duratura del paese. Saprà tenere fede a questo difficile compito?
Immagine in evidenza: Bolivia, blocchi per le strade. Ph: Emanuele Marafante
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