Una generazione in movimento.
Una generazione per la quale il movimento è aria, ossigeno, vita. Quella vita che non vuoi abbandonare, barattare, ignorare. Quella vita che ti definisce, con la quale sei cresciuto. Quella vita che è diventata normalità, ma che comunque i tuoi genitori non sapranno mai comprendere fino in fondo.
Movimento di corpo e di pensieri, di anima, di sensazioni ed emozioni. Movimento di sguardi e di voci, di mani e di piedi. Movimento veloce e movimento lento.
Nozioni di vicino e lontano che hanno perso il loro significato. L’obiettivo è cercare, trovare, sperare, o scappare? Non sappiamo cosa vogliamo, dove vogliamo arrivare, ma vogliamo partire. Partire per dove? Partire perché? Partire per chi? Nessuna domanda è più rilevante.
Mettersi in moto, pensare a nuovi orizzonti temporali, viaggiare nel tempo e con la fantasia, ignorare frontiere fisiche e mentali. Viaggiare come chi non ha mai abbandonato la propria dimora, e come chi non sa farne a meno. Viaggiare per ritrovare e per ritrovarsi.
Salvarsi per se stessi, o salvarsi da se stessi. Salvarsi per qualcuno o per nessuno. Pensarsi lontani o senza radici, ma allo stesso tempo radicati ad un luogo immaginario che chiamiamo casa. Una casa dove tornare, da lasciare, alla quale ripensare. Una casa da amare, da odiare, da reinventare. Una casa che è culla, che è gioco, che è litigio e responsabilità. Casa che può essere salvezza o prigione, isola o metropoli. Una casa che è nascondiglio e labirinto, luogo dal quale scappare, ma nel quale vorremmo essere ritrovati.
Tuttavia, l’assenza di movimento non è staticità. Stare fermi non significa essere bloccati, perdere tempo, smettere di crescere o smettere di vivere. Stare fermi può essere altrettanto faticoso e impegnativo come viaggiare. Scegliendo di star fermi non si trasportano più valigie, ma fardelli di varie forme e dimensioni, che ti stanno sulle spalle e ti schiacciano verso il basso. Sono quei fardelli che non puoi appoggiare per terra, non puoi dimenticare, non puoi vendere né regalare, ma solo indossare e affrontare.
E quindi, non è forse più facile partire? Scegliere un piccolo zaino per portarsi il meno peso possibile. Meno pensieri, meno idee, meno ansie e paure. Uno zaino piccolo, solo per quello che ti serve oggi e domani. Solo per le tue prime necessità, senza però rinunciare a portarti dietro quanto basta per avere il profumo di casa. Dalla quale, però, stai scappando. Il potere di un biglietto. L’essenza della libertà racchiusa in due millimetri di spessore. Una libertà fragile. Talmente fragile che la puoi strappare, gettare, bruciare, dimenticare su un tavolino di un bar di periferia.
Un biglietto di sola andata? Forse troppo avventuroso. Andata e ritorno quindi. Perché dopotutto, sebbene tu ti senta scoppiare tra le quattro mura dell’appartamento dei tuoi e passi le notti insonni pensando a cosa saresti potuto essere, torni sempre a casa. E ne hai bisogno. Hai bisogno della banalità, della semplicità, di tornare a qualcosa che conosci perfettamente e che ti conosce altrettanto perfettamente.
E quindi torni. Sebbene, già poche ore dopo, il tepore della normalità diventa troppo caldo, quasi bollente. Ti basta un dialogo con chi è ancora in viaggio, chi non ha ancora trovato una casa, chi una casa non ce l’ha mai avuta, per metterti in crisi. E quindi ti rialzi. Pensi che la staticità ti annulli, che il movimento ti appartenga e che rimandare una nuova scoperta non possa che rendere la tua vita più miserabile. Meno valida, meno significativa, meno doverosa di essere vissuta.
E quindi rifai le valigie. Questa volta prendi lo zaino grande. Perché dopotutto, casa ti è mancata e non puoi e vuoi farne a meno. Non ti bastano i ricordi e le foto. Vuoi sentirne il profumo, il rumore del lavandino che ti tiene sveglio la notte, l’acqua sempre troppo fredda e improvvisamente così bollente. Questa volta il biglietto lo prendi di sola andata. Questa volta sei convinto di sapere cosa vuoi, cosa stai cercando e non ti fermerai finché non lo troverai.
Ma prima, il giro dei saluti. Baci e abbracci, l’ennesima spiegazione incompresa, giustificazione del perché, anche tu, scappi dalla tua terra. Terra che ti ha cresciuto, arricchito, coccolato e alimentato per tutto questo tempo. Non capiscono, pensi. E poi l’ultimo saluto lo fai alle persone che meno di tutti ti capiscono, ma che più di tutti ti comprendono. Nonni e nonne di ferro, che hanno visto tanto e che mai hanno pensato che quello potesse essere abbastanza per andarsene. Sanno riconoscere la gioia di un sorriso all’alba, il primo fiore dell’anno, la noia e il calore del sole. Sanno quando è il momento della passata di pomodoro, quando la farina è troppa e quando è troppo poca, quando il cioccolato si sposa con gli amaretti, quando è il momento di aprire il cassetto del comodino da notte per darti quell’ultima liquirizia che tenevano da parte solo per te.
E poi apri gli occhi. Ti rendi conto che muoversi non è vita, ma la vita è sapersi muovere anche stando fermi. Sapere quando il viaggio più emozionante che puoi fare è nella tua testa, all’interno di quelle quattro mura che possono essere strette ma mai abbastanza per impedirti di aprire una finestra. Mettere le mani nel vaso dei legumi e viaggiare nel tempo, riascoltare quel disco che conosci a memoria mentre qualcuno vicino a te russa, coprirlo con quella vecchia coperta di lana, che improvvisamente è l’armatura più solida con la quale tu possa proteggerlo.
Quindi smetti di cercare la vita altrove, ma inizi a cercarla dentro di te e con te. E così, ovunque nel mondo sarai, saprai sempre di essere a casa.
[Immagine in evidenza: Carlo di Camillo come Cadica ]
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